Leggere una legge

articolo pubblicato il 22 ottobre 2014 su Il Foglio Quotidiano

Secondo le migliori tradizioni del giornalismo economico quando ci si trova dinanzi ad una manovra finanziaria di fine d’anno e per giunta di questa portata prudenza impone di leggere prima le norme e poi dare un giudizio completo. Come si sa, infatti, il diavolo si  nasconde nei dettagli. Detto questo, però, una prima valutazione può essere fatta sulla base delle dichiarazioni del presidente del consiglio e sulle tabelle consegnate in sala stampa. Diciamo subito che questa legge di stabilità presenta alcune luci, diverse ombre e due bugie. Partiamo dalle luci. La riduzione dell’Irap escludendo dal suo calcolo il monte salari è una scelta che va nella giusta direzione perché alleggerisce il carico fiscale sul mondo delle imprese oppresse da diverse anni da una pressione tributaria e contributiva anomala e da una grave crisi della domanda interna ed internazionale. E’ vero che questa norma beneficia maggiormente le medie e le grandi aziende ma d’altro canto sono quelle che hanno il maggior numero di occupati. Altra scelta positiva è  la vecchia fiscalizzazione degli oneri sociali(così si chiamava all’epoca) per i nuovi assunti con un contratto a tempo indeterminato e per soli tre anni. Questa norma abbassa, insieme alla riduzione dell’Irap, il costo del lavoro in maniera significativa ed orienta le imprese ad assumere con questo tipo di contratto rispetto alle altre tipologie di contratti ancora vigenti. Ma qui sostanzialmente finiscono le luci salvo a scoprire nell’intero provvedimento qualche altra cosa di buono. Le ombre, invece, sono diverse e nella sostanza riguardano i tagli per 15 miliardi di spesa. Innanzitutto è da verificare nel concreto se questi tagli esistono per davvero, e se esistono come noi crediamo perché parte di essi sono tagli lineari ai trasferimenti alle Regioni, province e comuni, bisogna capire a cosa danno origine. La cosa più probabile è che parte di essi si trasformeranno  in più alte imposte locali mentre un’altra parte si trasformerà in una riduzione della spesa in conto capitale delle regione e degli enti locali. Entrambi gli effetti andranno a vanificare in parte quelle misure che abbiamo definito come le luci del provvedimento approvato. D’altro canto affrontare un equilibrio dei conti pubblici e un rilancio della  crescita con gli ordinari strumenti a disposizione difficilmente si può sfuggire a questi effetti uguali e contrari. Come è noto, noi eravamo e siamo tra quanti ritengono che solo un abbattimento di una parte significativa del debito può dare delle risorse fresche perché riduce quella spesa per interessi che ad oggi dà circa 80 miliardi alla finanza nazionale ed internazionale senza dover ricorrere a tagli di ogni tipo che in una fase recessiva e deflattiva  come quella che sta vivendo l’Italia da circa sei anni, amplificano gli input recessivi. Non è un caso che l’Italia quest’anno sarà l’unico paese dell’eurozona a rimanere con un Pil negativo. E qui passiamo alle bugie, qualcuna piccola e tradizionale, qualche altra un pò più grande che  rasentano l’imbroglio. Le prime sono le previsioni in gran parte sbagliate. Quest’ anno la nostra crescita negativa, se avviene un miracolo nell’ultimo trimestre, si può fermare a meno 0,5-0,6, cioè circa il doppio di quanto previsto nel documento finanziario con un trascinamento negativo anche sulla prima parte dell’anno prossimo che prevede, peraltro, una striminzita crescita positiva dello 0,6 per il 2015 e che sarà puntualmente a rischio. Sarà, infatti, a rischio perché in questa manovra manca l’altro tassello fondamentale per fare uscire l’Italia dal tunnel ventennale di una crescita bassa o negativa, e cioè gli investimenti pubblici. Essendo la crisi che viviamo una crisi della domanda questa non si accresce mettendo un po’di soldi in più nelle tasche di chi ha già un reddito(80 euro o il TFR nella busta paga) perché in costanza di crisi questi soldi si trasformano in risparmi per un futuro che resta ancora incerto. La domanda si accresce se si allarga la base occupazionale e il là non può che darlo gli investimenti pubblici che languono e che rischiano, per le cose dette, di diminuire ulteriormente sul versante degli enti locali. Alla stessa maniera a prima vista manca qualunque incentivo per gli investimenti privati come quello ad esempio di un più rapido ammortamento degli investimenti fatti nei prossimi 18 mesi, una norma premiante a termine, cioè, capace di sollecitare le aziende a cogliere questa opportunità e ad anticipare i propri investimenti. Abbiamo lasciato per ultima la bugia più grande perché ci intenerisce ricordandoci una vecchia gag del grande Totò. Il presidente del consiglio ha detto con enfasi, e larga parte dei giornali lo hanno ripetuto, che con questa manovra si tolgono 18 miliardi di tasse. Non è vero e ci spieghiamo. Renzi calcola come riduzione di tasse il mantenimento dei famosi 80 euro decisi nel maggio scorso. Se non li avesse confermati noi avremmo avuto un aumento delle tasse mentre avendoli confermati l’aumento non c’è stato ma nemmeno la riduzione rispetto all’anno che sta per finire. Per dirla ancora meglio, se questa detrazione che produce il beneficio degli 80 euro viene fatta con norme che si rinnovano anno dopo anno secondo Renzi dopo 5 anni avremmo ridotto la pressione fiscale di 50 miliardi o saremo rimasti sempre al palo di quelle detrazione che danno per l’appunto sempre e solo i famosi 80 euro? Ci pensi e si dia una risposta! Se non volessimo bene a Renzi, ai suoi lupetti e ai tanti DC presenti nel governo e nel PD diremmo che questa comunicazione è solo un imbroglio non degno di un governo di un grande paese. In verità, forse, è solo il frutto di una velenosa tentazione mediatica e di una giovinezza un po’goliardica. Quel che è certo, però, è che la riduzione della pressione fiscale è solo quella dell’Irap e quella contributiva è nei limiti di due miliardi per la esenzione contributiva dei nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato. Non pochi ma molto lontani da ciò che serve all’Italia per uscire dalle secche.

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