Perchè Renzi e l’Italia dovrebbero preoccuparsi molto dell’astensionismo

articolo pubblicato il 28 novembre 2014 su Il Foglio Quotidiano

Dinanzi al crollo dell’affluenza alle urne nelle elezioni dell’Emilia-Romagna e della Calabria, due regioni che per la loro diversità possono essere lo specchio del paese, il presidente del consiglio ha affermato che questo fenomeno appartiene pro-quota a tutti i partiti esultando per la vittoria dei due candidati democratici. Questo distacco dalla politica certamente ha più paternità ma non c’è dubbio che il partito democratico abbia una quota di responsabilità maggiore ed è anche quello  che dovrebbe preoccuparsi più degli altri. Renzi quattro mesi fa, alle europee, personificò l’ultima speranza per un paese sfiduciato ed impoverito. Quella speranza si è affievolita tanto che il 49% dei voti conquistato oggi in Emilia da Bonaccini rappresentano poco meno del 18% degli emiliani mentre alle europee il PD aveva avuto il consenso di oltre il 36% dei cittadini di quella regione (il 52% del 70% dell’affluenza). Oltre 11 punti in meno in quattro mesi in una regione storicamente legata alla sinistra comunista socialista e democristiana rappresenta un dato inquietante non solo per il PD. Il partito democratico, infatti, è un pilastro del sistema politico nazionale. Tutti gli altri possono perdere o guadagnare punti ma il loro risultato non intacca la stabilità del sistema. Non accorgersi di questa differenza è segno o di immaturità o di ipocrisia senza che suoni offesa per nessuno. Ma c’è di più. Quando il 60% del paese dovesse continuare a non andare a votare non è che siamo diventati tutti americani come dicono i buontemponi travestiti da politologi. Siamo dinanzi ad un rischio serio. Un rischio che in quella maggioranza di sfiduciati e per di più oppressa da sofferenza sociale si possono facilmente insinuare tentazioni di lotta violenta come l’abbiamo conosciuta già qualche decennio fa. Quella lotta, all’epoca armata dalla utopia rivoluzionaria, fu battuta da un sistema politico forte per cultura, politica e  organizzazione. Se le crescenti povertà che affliggono l’Italia di oggi dovessero produrre un’altra di quelle stagioni, a fronteggiarla ci sarebbero solo pallidi spettri privi di cultura, di politica, di organizzazione territoriale e forti solo di parole passe-partout come cambiamento, futuro, bellezza e tanti sinonimi che sono solo l’imbellettamento di un pensiero politico debole. Se a tutto ciò si aggiungono le azioni di quanti, pur essendo stati per anni al governo, cavalcano il disagio crescente con un linguaggio demagogico, il corto-circuito politico e sociale diventa una realtà esplosiva. Ecco perché il maggior partito del paese dovrebbe essere oggi più preoccupato degli altri che sono solo comprimari di un sistema politico sbrindellato. E invece di questa preoccupazione non c’è traccia. Abbiamo letto e riletto la lettera che Matteo Renzi ha inviato a Repubblica nel disperato tentativo di rintracciare un indizio, uno spiraglio per sperare in un tempo diverso da quello vissuto in questi ultimi venti anni. Niente, davvero niente. Non è possibile mettere insieme tanti leader mondiali cresciuti e vissuti in contesti nazionali profondamente diversi nel tentativo di costruire un profilo politico di un partito perché questo tentativo appare per quello che è, e cioè solo un espediente di chi non ha una visione consapevole delle sfide che il paese ha davanti e naviga a vista. Noi siamo tra quanti ritengono che abolire gran parte dell’articolo 18 non sia un attacco ai diritti dei lavoratori ma siamo anche convinti che sarebbe stato necessario dare una visione generale di ciò che sta accadendo, in particolare sulla origine delle  crescenti disuguaglianze  e della crisi dell’economia reale in Italia, in Europa e nel mondo. Ci riferiamo a quel capitalismo finanziario che sta alimentando immense ricchezze ed ha partorito la più grande depressione dell’economia reale dell’occidente dopo quella del 1929 a fronte di tassi di crescita importanti in paesi dell’emisfero orientale che hanno sposato l’economia di mercato ma hanno impedito al capitalismo finanziario di devastare i propri assetti sociali grazie a sistemi politici autoritari. È questa la nuova frontiera con la quale il cattolicesimo politico e il socialismo degli anni duemila dovrebbero misurarsi per costruire una società più giusta e più sostenibile e bacchettare, ad un tempo, utopie egualitarie e  liberismi selvaggi. Per queste ragioni avremmo capito una visione che, volendo innovare le regole del mercato del lavoro, l’avesse collocata in un ragionamento di questo tipo piuttosto che imporre quel patto del Nazareno senza anima. Siamo oggi in una situazione tale da non riuscire a capire i rischi che l’Italia corre, come ad esempio l’acquisizione del nostro sistema bancario da parte della grande finanza internazionale avviandoci in tal modo ad essere una colonia di rango senza neanche avere la dignità di un paese aderente a quel nuovo Commonwealth degli uomini senza volto. Evocare politicamente una sinistra, un centro o una destra senza qualificazione culturale è solo un imbroglio, una sorta di pout-pourri di pezzettini di storie diverse messe insieme alla rinfusa e buona solo per il mercato dei falsi d’autore mentre il paese avrebbe bisogno di ben altro.

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