Cosa fare per rilanciare il Sud

articolo pubblicato su Il Mattino il 30 dicembre 2015

Il Mezzogiorno d’Italia scomparso dall’agenda politica da almeno venti anni è improvvisamente ricomparso sui grandi organi di stampa che ne hanno scoperto l’ingravescente miseria sino al rischio della irreversibilità. Cosa positiva, naturalmente, anche se quanti ne hanno parlato sinora hanno finito per mescolare capra e cavoli spesso più per giustificare vecchi giudizi politici che non per osservare la realtà dei fatti accaduti negli ultimi venticinque anni. Intendiamoci, il Sud d’Italia è stato da sempre il figlio negletto della storia patria per indifferenza, noncuranza monarchica e, nell’era repubblicana, perché soverchiato da più grandi e più urgenti questioni a partire dalla ricostruzione materiale e morale dell’Italia del secondo dopoguerra. Ciò detto, però, fare di tutte le politiche un fascio solo è sbagliato così come lo è fare la storia economica del Mezzogiorno fuori dalla storia politica del paese. E ci spieghiamo. Alla fine degli anni sessanta, le tradizionali fratture della sinistra italiana reintrodussero nella politica italiana livelli di instabilità che sembravano superati. Un solo esempio per tutti. La riunificazione socialista tra il PSI ed il PSDI avvenuta nel 1966  si dissolse nel 1971 perché i due partiti socialisti dopo aver deciso di riunificarsi in un solo partito ne divennero tre (PSI-PSDI-PSIUP) buttando a mare quella operosa stabilità politica lasciando così campo libero all’onda del sessantotto il cui intreccio porterà quei frutti velenosi rappresentati dal terrorismo brigatista e dall’inflazione a due cifre. La stagione della solidarietà nazionale, durante la quale iniziò la fine del brigatismo rosso, aiutò a ridare all’Italia un decennio di stabilità politica (1983/92) in cui si alternarono solo 4 governi e cioè Craxi, Goria, De Mita, Andreotti. Nei due decenni successivi (1993/2015) si sono alternati ben 14 governi con quella continua alternanza di forze politiche che teorizzata come una stagione di salute della democrazia italiana altro non era che una instabilità strutturale del sistema politico che si sta concludendo con una irreversibile e drammatica involuzione democratica. In questo sommario quadro politico vanno inseriti lo sviluppo ed i ritardi del Mezzogiorno. Si vedrà, allora, che negli anni ’50 e ’60 la crescita economica del sud, ancorché inferiore al nord, viaggiava su tassi significativi (tra il 3-3,5%) e alla fine degli anni ’80 gli occupati nel sud erano 6,5 milioni e il reddito pro-capite era risalito al 60% del nord mentre oggi siamo a 5,8 milioni di occupati ed un reddito pro-capite al 53% rispetto al nord a testimonianza che da oltre 15 anni il sud è scomparso dall’orizzonte politico e la sua classe dirigente, con la scomparsa dei partiti, si è rattrappita sul piano qualitativo pur avendo a disposizione nelle proprie mani risorse e strumenti diversi e migliori per quantità e qualità di quelli degli anni precedenti (finanza regionale e fondi europei entrambi purtroppo mal gestiti). Ma veniamo al cuore del problema. Gli ultimi due decenni hanno visto aumentare drammaticamente quel differenziale di  vita e di convenienza ad investire nel sud perché si è paurosamente allargato il deficit infrastrutturale rispetto non solo al nord del paese ma anche rispetto a tante altre aree sottosviluppate dell’Europa comunitaria. A questo deficit strutturale si è aggiunto la scomparsa di quelle convenienze del passato in termini fiscali e contributivi che in parte avevano compensato i ritardi infrastrutturali storici del Mezzogiorno. L’assenza, infine, di uno o più soggetti pubblici capaci di essere presenti nel ciclo produttivo, in particolare in quello a tecnologia avanzata, ed il crollo degli investimenti pubblici nelle infrastrutture materiali ed immateriali (-22% negli ultimi 15 anni) hanno riportato all’indietro le lancette dell’orologio del Mezzogiorno sino a rischiare di raggiungere il punto di non ritorno. Se si guarda solo all’area napoletana la scomparsa dell’IRI e dell’EFIM ha desertificato o ridotto il tessuto industriale (ILVA, Alenia, Breda, Selenia, Ansaldo) mentre il mercato privato non ha più trovato quelle necessarie convenienze ad investire che pure avevano fatto la fortuna della provincia di Caserta in un territorio dove criminalità economica e qualità della vita finiscono per annullare ogni slancio produttivo compreso quello fondamentale del turismo. Di qui allora la esigenza di riprendere gli investimenti pubblici nel settore infrastrutturale fermatisi agli inizi degli anni ‘90 e di aprire una nuova stagione per quei fondi europei, spesso dissipati in mille rivoli perchè privi di ipotesi progettuali di sistema, e per una politica fiscale capace di offrire un ponte di convenienza economica in attesa di una bonifica dei territori sotto ogni aspetto e del ripristino di una qualità della vita e dei fattori produttivi capaci di far riprendere al sud crescita ed occupazione. Per concludere politica, amministrazioni pubbliche, imprenditori e sindacati devono rilanciare, ognuno per la propria parte ma con sforzi convergenti, un progetto complessivo per il sud senza del quale il paese non potrà mai decollare nè trovare salvezza nella prospettiva di un uomo solo al comando. La vicenda di Bagnoli sarà, per questo metodo, un test fondamentale.

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