La grammatica della Prima Repubblica ci spiega bene come si fa a trasformare in oro anche le scissioni più traumatiche

articolo pubblicato su Il Foglio Quotidiano il 22 febbraio 2017

Diciamo subito che lo stato di salute del partito di maggioranza relativa, nel caso specifico il PD, non interessa solo i suoi iscritti ed i suoi elettori ma l’intero paese come sempre accade nelle democrazie parlamentari e più in genere nella politica sotto tutte le latitudini. Noi siamo tra quei pochi che all’epoca della nascita del PD fummo tranchant nei riguardi di quella unione tra due culture profondamente diverse tra loro, quella cattolica e quella socialcomunista, definendo il neonato partito una sorta di ogm, un organismo geneticamente mutato, vivo ma non vitale come la famosa pecora Dolly. Siamo stati facili profeti aiutati anche dall’improvvisa entrata in scena di Matteo Renzi che della democrazia aveva una idea diversa rispetto non solo a quella della democrazia Cristiana ma anche a quella dell’area socialista e comunista. Un’idea diversa, badate bene, non peggiore perché la visione di Renzi si incarna più in un sistema presidenziale addirittura forzandolo che non in quella parlamentare. Questa diversità così profonda, accanto alle altre diversità sulle grandi sfide del terzo millennio a cominciare dal contrasto al capitalismo finanziario, non poteva che fare emergere fratture gravi. Non è un caso che quando le due diverse idee di democrazie sono venute alla ribalta con il referendum costituzionale la frattura è scesa nelle piazze con i risultati del 4 dicembre. Si dice che Renzi abbia subito preso atto della sconfitta, ma avrebbe potuto fare diversamente? Quel che forse è mancato è l’analisi del perché di una sconfitta così robusta al netto della antipatia contro il nostro amico Renzi e contro il governo. Non è un caso che nell’ammettere la sconfitta in Renzi si intravede il permanere di quella idea diversa della democrazia che ieri si voleva imporre al paese ed oggi si vuole consolidare in un partito che ha fatto di tutto con il consenso unanime, anche statutariamente, perché quella idea “presidenziale” si consolidasse. Giunti a questo punto la frattura sarà difficilmente componibile visto che gli amici di Renzi continuano a dire che quando nel congresso ci sarà un vincitore “i perdenti non devono scappare con il pallone”. Tradotto in volgare significa che chi vince non solo da la linea al partito ma ordina ed ha potere di vita e di morte su tutti i dirigenti del partito come purtroppo accade da venticinque anni in tutte le forze politiche. Insomma il presidenzialismo con lo “spoil system” applicato non più al paese ma ad un partito. E così non si aiuta la ricomposizione. Noi abbiamo trascorso una intera vita in un partito in cui la leadership era quella che convinceva non quella che ordinava e che il giorno dopo la vittoria nel congresso il primo atto che si proponeva era quello di riunire il partito chiamando alla sua guida ed al governo del paese anche l’intera minoranza a testimonianza che le responsabilità ed i pesi del potere potevano e dovevano essere diversi tra maggioranza e minoranza ma che nel governare partito e paese il partito era unito! È questo discrimine tra le due culture che oggi tiene banco, un discrimine certamente di potere ma anche di democrazia perché la politica senza condivisione dei poteri si trasforma lentamente prima in una oligarchia e poi degenera nell’uomo solo al comando quali che siano le buone intenzioni di chi sostiene questo impianto dentro e fuori del partito. Su questo terreno il paese si è espresso con chiarezza ed anche chi non la dovesse pensare alla stessa maniera deve prenderne atto e comportarsi di conseguenza. Un piccolo partito può far finta di niente e continuare nella disastrosa scelta bonapartista, ma il più grande partito del paese non può farlo perché sulle sue spalle c’è l’onere del governo di una società sofferente ed inquieta insidiata, per giunta, da partiti autoritari e populisti secondo il gergo antico. Come uscirne allora? Come sempre accade in queste occasioni si dovrebbe inserire nello statuto una norma che attivi un processo democratico e cioè la separazione tra segretario del partito e presidente del consiglio. Una piccola norma che secondo gli incolti genera debolezza nel governo mentre altro non è che un iniziale processo democratico che presuppone quella collegialità negli organi di gestione del partito sostanzialmente scomparsa. Una collegialità che avrebbe inoltre il merito di fare emergere darwinianamente idee ed energie nuove di cui quel partito e l’intero sistema politico italiano oggi ne ha più che mai bisogno. Renzi, Bersani, Emiliano, Speranza, Orlando, Franceschini avranno la forza di fare questo passo “rivoluzionario”? Noi lo auspichiamo perché anche l’unità del maggiore partito è un valore, ma non a tutti i costi! Se questo passo sarà ritenuto impossibile meglio dividersi senza far volare gli stracci perché la realtà del dopo inevitabilmente imporrà una alleanza tra quanti oggi si dividono perché i diversi possono fare un governo con un programma comune mantenendo ciascuno la propria identità mentre se i diversi restano nello stesso partito accentuando le proprie diversità finirebbero, ironia della storia, per beccarsi a sangue come i polli di Renzo e dividersi dopo aver creato macerie. Questo è il tempo in cui si vedrà la statura politica di ciascuno e difficilmente la Storia dimenticherà il coraggio e la codardia, la visione del paese e l’attaccamento al solo potere ed il suo giudizio sarà inappellabile.

paolocirinopomicino@gmail.com

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