Il mio pensiero…

 Il mio pensiero politico ed economico (tratto dal libro ” La  Politica nel cuore”)

 

Cosa ci vuole per fare politica

Ricordava Platone che chi non sa fare un paio di scarpe non si metterà mai a fare il calzolaio, così come  chi non sa di medicina non curerà mai gli ammalati. Tutti, però, si ritengono all’altezza di guidare lo Stato e il paese. Nessuna scuola, professionale o classica che sia, potrà mai dare quel profilo culturale e di sensibilità che la politica richiede. È nella vita delle associazioni ma innanzitutto in quella dei partiti che si apprendono e dialetticamente si accettano strategie e programmi. È negli enti locali che si matura la prima esperienza, ci si confronta con il potere amministrativo e con la capacità di applicare le proprie idee nella realtà quotidiana. E infine è nell’attività legislativa parlamentare che si assume una visione d’insieme dei bisogni e delle risposte che essi sollecitano, allenandosi a mantenere sempre viva l’attenzione sugli effetti che una norma legislativa produrrà sul corpo vivo della società e dei suoi legittimi interessi.

Associazioni, partiti, enti locali, parlamento: solo con questo percorso un gruppo dirigente potrà essere pronto ad assumere un ruolo di governo. Non basta “sapere”. Non basta “conoscere”. La politica è qualcosa di diverso dalle singole professionalità. Anzi, più volte ho insistito che per essere un buon ministro non bisognava essere tecnici di quel settore. Tanto per intenderci, un medico non dovrebbe fare il ministro della Sanità così come un avvocato o un magistrato non dovrebbero diventare ministri della Giustizia. Né si può lasciare la politica economica agli economisti. I cosiddetti tecnici possono essere buoni consulenti o autorevoli burocrati, ma difficilmente buoni ministri perché introducono nell’azione di governo quelle rigidità accademiche e professionali che sono l’esatto contrario della flessibilità chiesta dalla politica. Dirò di più: per fare politica non basta avere buone idee, perché intorno ad essa va costruito il consenso. Senza il consenso le idee diventano puro esercizio intellettuale.

Elemento necessario per esercitare l’arte della politica è poi il coraggio. Nei momenti delle scelte si è quasi sempre soli. E spesso le scelte migliori per il paese sono le più impopolari. C’è una regola di fondo nelle grandi democrazie che sembra smarrita da quindici anni a questa parte: la società deve essere guidata lasciando ad essa, poi, il naturale ruolo di giudice dell’operato delle classi dirigenti nelle elezioni successive. Il contrario di ciò che abbiamo visto fare negli ultimi tempi, quando la bussola dei governi è stata l’umore del popolo e i continui sondaggi su tutto e su tutti si sono trasformati nel viatico virtuale per decidere se continuare o fermarsi nell’azione di governo.

Questa sorta di democrazia diretta attraverso i sondaggi manda in corto circuito una classe dirigente che, certo, deve tener conto dell’opinione pubblica, ma non può farsi guidare da essa. Quando, per esempio, nel dopoguerra fu realizzata la Comunità del Carbone e dell’Acciaio e poi, con i patti di Roma, partì l’Unione Europea a sei, le forze sociali, parte rilevante della grande stampa e l’intera sinistra politica italiana erano contrarie. I dirigenti democristiani, forti di un pensiero politico lungimirante, ebbero il coraggio di non seguire gli umori e le mode del tempo e costruirono quell’Europa comunitaria che con tutti i difetti è un modello anche per l’altra area del pianeta ed è diventata protagonista nel governo del mondo. Pensiero politico e coraggio sono, nell’ordine, i due ancoraggi per chi voglia davvero governare senza perdersi nella mera cura di grandi e piccoli interessi spesso inconfessabili. È inutile aggiungere che una politica degna di questo nome deve anche avere un dialogo serrato con il cosiddetto establishment del paese. Genuflettersi a esso, però, è il più alto tradimento che si possa fare alla democrazia e allo Stato.

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I soldi? Nel 2002 ho dovuto vendere casa

Un’altra caratteristica necessaria, per essere un buon politico, è il non cercare la ricchezza personale. Sia chiaro: la politica ha bisogno di soldi, senza i quali diventa debole e subalterna. Di qui l’attuale offensiva contro il finanziamento pubblico della politica da parte dei grandi organi di informazione del potere economico che gli sta dietro. Una cosa, però, sono le risorse per i partiti; un’altra cosa è il patrimonio personale. Lo dico con fierezza perché, dopo essere stato indicato per anni come uno dei quaranta ladroni di questo paese, mi ritrovo da tempo in difficoltà economiche tanto che, dopo 25 anni di vita politica, ho avuto bisogno estremo di inventarmi altri lavori per pagare spese giudiziarie, vivere con la mia famiglia e all’occorrenza curarmi. E non sempre ero in condizione di farlo, in particolare quando dovevo essere operato all’estero: nel 1997, per esempio, mi sostenne un amico che non dimentico e che versò una forte somma al Brompton Hospital di Londra mentre altri due amici di famiglia mi dettero venti milioni da corrispondere al  momento del ricovero. Non li avevo e i tanti amici di cui le cronache del tempo avevano parlato erano tutti scomparsi.

Se racconto a distanza di tempo queste cose è proprio per testimoniare il necessario distacco dalla ricchezza. Nel 1988 avevo oltre 500 milioni l’anno di reddito fiscale dichiarato e questo mi consentì di comprare una nuova casa a Napoli, accendendo un mutuo e vendendo la vecchia abitazione. Era quella famosa di via Nevio. Nel 1994 persa parte delle entrate (non ero deputato, mi sequestrarono la casa, il  motorino di mia figlia e il 20% del vitalizio parlamentare e dovetti uscire da una partecipazione in una vecchia società di mio padre) ebbi difficoltà ad andare avanti. Geronimo mi aiutò, così come altri amici di nuova conoscenza che mi fecero lavorare. Ma nel 2002 fui costretto a vendere casa perché non riuscivo a completare il pagamento del mutuo.

Dopo anni, i famosi segugi della procura di Napoli scoprirono che quei tesori e quelle ricchezze ricercate in tutto il mondo non esistevano. Stavano solo nella loro mente. È vero: ricevevo contributi elettorali ma servivano per sostenere le spese della politica, per mantenere le strutture della corrente e per le continue battaglie elettorali come ho potuto dimostrare documentalmente in alcuni processi. Nelle ultime elezioni senatoriali americane Hillary Clinton ha raccolto, per un collegio come quello di New York con otto milioni di elettori, 30 milioni di euro. Il mio collegio dell’epoca di elettori ne aveva 3,5 milioni e, se tanto mi dà tanto, avrei dovuto raccogliere e spendere per la mia elezione 11 milioni di euro. Invece spendevo 700 – 800 mila euro. Eppure la Clinton è una democratica e io sono stato imputato più volte per corruzione e solo dopo anni sono stati prosciolto. Potenza delle lobby, dell’ipocrisia e del conseguente doppiopesismo politicamente corrotto, oltre che di un ritardo culturale per cui il contributo di un privato a un partito è già di per sè un atto corruttivo.

Personalmente non faccio parte di quella schiera di cattolici convinti che il denaro sia il demonio. Se uno è ricco di famiglia, o se ha un’industria o un’attività che marcia da sola, ben vengano i soldi che rendono libera la politica, come nel caso di Berlusconi. Ciò che non deve mai avvenire è che il denaro acquisti la politica e la sua libertà senza le quali il paese declina.

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Tutti i guai del maggioritario

Con il maggioritario è cominciata la nuova stagione di un più strisciante autoritarismo che mette nelle mani di pochi il governo del paese e svuota il Parlamento delle sue fondamentali prerogative.

I sostenitori del sistema elettorale uninominale maggioritario vigente fino al 2006 facevano finta di non vedere cosa accadeva nella formazione delle liste. Siccome la maggioranza dei collegi ha un orientamento politico ben preciso (si pensi all’Italia del centro o alla Sicilia e al Veneto tanto per indicare pascoli sicuri del centro sinistra e del centro destra), il risultato nei collegi uninominali era facilmente prevedibile. E  questo consentiva ai nuovi padroni di quei simulacri organizzativi che continuano a chiamarsi impropriamente partiti, di decidere coloro che dovevano essere eletti. Anche Giulio Cesare del resto, se fosse stato candidato in collegi a maggioranza contraria non sarebbe riuscito a farsi eleggere. Al contrario si

poteva essere politicamente modesti ma se si veniva candidati, per esempio, dal centro sinistra nel Mugello si veniva eletti senza neanche farsi vedere. Insomma, la scelta di fatto con il sistema maggioritario veniva sottratta all’elettore e affidata ai proprietari dei cosiddetti partiti: il nome dell’unico candidato di uno schieramento, infatti, lo si trovava già scritto sulla scheda. L’elettore o votava quello o ciccia. A meno che non decidesse di scegliere l’altro schieramento nel quale non si riconosceva.

Ma  non è finita. Siccome nei collegi uninominali maggioritari per un voto si vince o si perde, chiunque è capace di mettere insieme tre – quattrocento mila voti (circa l’1 %) e  andare al tavolo delle coalizioni e dire “io ho tanti voti e sono pronto a darli alla coalizione in cambio di due collegi sicuri, due contendibili e quattro per la bandiera”. Se le sue dichiarazioni sono credibili, la coalizione puntualmente accetta. Di qui la frantumazione causata dal sistema maggioritario che ha partorito tanti piccoli partiti ognuno dei quali deve, poi, urlare la propria diversità per avere titolo a sedersi al tavolo della spartizione nelle elezioni successive. Per capire di cosa parliamo è bene ricordare che nel vecchio sistema proporzionale nella Prima Repubblica i partiti che arrivavano in Parlamento con il 2-3 % dei voti erano tre (Radicali, Liberali e Socialdemocratici). Oggi sono almeno 7 (Comunisti Italiani, Verdi, Rosa nel Pugno, Di Pietro, Mastella, la DC di Rotondi, gli Autonomisti siciliani di Lombardo) senza contare movimenti come quello dei pensionati che pure portano a casa qualche deputato europeo e nazionale con poco più dell’1%.

Molti dicono che i responsabili di questa frantumazione sono i piccoli partiti. La verità è che la colpa è dei maggiori partiti, che non sanno essere partiti di massa come accade in tutta Europa, e di un sistema maggioritario che spinge alla polverizzazione l’intero sistema politico.

Se nel vecchio sistema elettorale dei collegi uninominali maggioritari solo il 25 % dei parlamentari era eletto con la lista bloccata, nel nuovo sistema, ideato da Berlusconi, Fini e Calderoli, tutti i deputati e senatori sono eletti con la lista bloccata. Insomma nessuna preferenza. Il cittadino non deve sapere chi elegge. Deve votare e basta.

L’eliminazione della preferenza è stato il colpo più duro alla democrazia di questo paese e ha bloccato, insieme alla vocazione proprietaria dei nuovi partiti, ogni selezione della classe dirigente distruggendo ogni pensiero politico. Un disastro senza precedenti. Grazie a Dio questo delitto democratico non mi appartiene perché sono sempre stato figlio della preferenza, anche in età avanzata. Nel 2004 nelle elezioni europee (45 mila voti di preferenza) e nel 2006 come capolista a Napoli, quando presi nella mia provincia gli stessi voti di due anni prima pur essendo in un partito diverso perché espulso dal mio amico Mastella. Oggi sembra che tutti si siano convinti dei disastri del maggioritario e il proporzionale è tornato di moda e sembra che stia finalmente passando il concetto democratico secondo cui le alleanze politiche siano rimesse nelle mani del Parlamento. È forse l’inizio di una svolta copernicana che colpisce l’impudenza di quanto hanno sostenuto per 15 anni le virtù del maggioritario e che nello spazio di una notte hanno cambiato registro senza un minimo di autocritica. Naturalmente le trappole sono ancora molte come quella sostenuta dai tanti che chiedono siano gli elettori a indicare il primo ministro. Questi sepolcri imbiancati della democrazia dovrebbero avere il coraggio di sostenere un sistema presidenziale. Ma purtroppo nell’Italia della Seconda Repubblica coerenza e capacità di vergognarsi sembrano virtù scomparse.

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Partitocrazia e presidenzialismo

Fini è segretario del suo partito da 18 anni. Casini e Berlusconi sin dalla nascita sono presidenti dei loro movimenti (Casini per interposta persona quando è stato eletto presidente della Camera). Di Pietro, Bertinotti, Rutelli, Diliberto, Mastella sono leader con un’anzianità che va dagli otto ai quindici anni. Solo i Ds si sono alternati in tre negli ultimi anni. Dunque manca il ricambio. Questo è il punto nevralgico della crisi italiana: non crescono classi dirigenti nuove.

Nella famigerata Prima Repubblica non era così. La Dc a ogni tornata elettorale portava in Parlamento 30 – 40 persone nuove che si erano fatte le ossa sul territorio o rappresentavano pezzi di società. Negli anni ’80 ebbe un presidente del Consiglio giovanissimo, come Giovanni Goria, che andò a palazzo Chigi a quarantatré anni. Negli ultimi dodici anni lo scontro è tra due ultrasessantenni diventati nel frattempo settantenni. E anche i segretari politici cambiavano in fretta: quando De Mita volle modificare la vecchia tradizione di tener separate le funzioni di presidente del Consiglio e di capo del partito, prendendosi il doppio incarico, in pochi mesi perse entrambi i ruoli.

Oggi tutto questo non accade più perché la democrazia è scomparsa nei partiti come nelle istituzioni elettive. Gli uni sono lo specchio degli altri e viceversa. I partiti sono ridotti a protagonisti lillipuziani della vita politica: uno solo (Forza Italia) supera il 20 %, solo tre sono tra il 10 e il 17 % (Ds, An e Margherita), due superano il  5 % (Rifondazione e Udc). Tutti gli altri sono al di sotto di quella soglia che in Germania non consentirebbe di entrare al Bunderstag, nemmeno con un deputato.

Quante volte avrete letto peste e corna della cosiddetta partitocrazia, regime imperante della Prima Repubblica? Un abbaglio grossolano, quanto doloroso. Facciamo un esempio. C’è da nominare il consiglio d’amministrazione della Rai. Chi decide? Nella Prima Repubblica si riunivano le direzioni dei partiti o gli uffici politici: non meno di 50 – 60 persone, divise tra tutte le formazioni al governo con in più il maggior partito di opposizione. Oggi invece si riuniscono Berlusconi, Casini, Bossi e Fini da una parte; Prodi, Fassino, Rutelli e Bertinotti dall’altra. Se proprio vogliamo largheggiare, si arriva a dieci o quindici persone. Certo, non c’è più la partitocrazia. Adesso c’è l’oligarchia. Ma che cos’è più democratica?

Si dice normalmente che le nomine non le devono decidere i partiti ma le istituzioni. Per esempio, nel nuovo consiglio d’amministrazione Rai due persone vengono indicate dal ministro dell’Economia. E secondo voi il ministro dell’Economia chi sente prima di prendere la sua decisione? La Fata Turchina? Lo Spirito Santo? Macché. Si consulta con il presidente del Consiglio naturalmente. E dunque a decidere, nel caso, è una sola persona. Morale della favola: i partiti avranno avuto molti difetti. Ma se non altro garantivano un po’ di democrazia. Oggi, se decide uno da solo, che democrazia è?

La cosa più oscena che abbiamo visto e sentito in questi ultimi mesi è l’urlo sdegnato di alcuni politici e opinionisti contro il degrado della politica. Sono gli stessi che dal 1994 in poi hanno difeso il sistema maggioritario, abolizione della preferenza, il bipolarismo straccione e il premio di maggioranza. Insomma, tutto il peggio del peggio. È osceno che, per esempio, Walter Veltroni nelle tante trasmissioni televisive (una fra tutte: quest’autunno con la Bignardi su La 7) parli di tutto questo dimenticando che dal 1994 in poi è stato da segretario del Pds, da vicepresidente del Consiglio e poi da sindaco di Roma, il maggior sostenitore di quell’impasto politico-istituzionale che ha ridotto l’Italia in ginocchio.

Di fronte a questo scenario i partiti (tutti, nessuno escluso) non sanno darsi una mossa, recuperando cultura politica e progettualità. E allora non c’è altra via che passare da una democrazia parlamentare a una democrazia presidenziale. Non il ridicolo e politicamente corrotto presidenzialismo regionale, nel quale il presidente ha nelle sue mani la vita e la morte dell’assemblea regionale perché se si dimette il Consiglio si scioglie. (Se fosse stato questo il  modello del presidenzialismo americano Richard Nixon non si sarebbe mai dimesso: a non volerlo sarebbe stato lo stesso Congresso perché secondo la versione italica sarebbero dovuti andare a casa deputati e senatori). Al contrario ciò di cui l’Italia ha bisogno è un presidenzialismo con i pesi e i contrappesi, capace di dare nuova forza alle istituzioni e trasferire così alla politica quella autorevolezza che oggi i partiti non le sanno dare.

Siamo, ormai, alla Quarta Repubblica francese, allorquando lo sfarinamento dei partiti stava portando il paese alla rovina. L’arrivo di Charles De Gaulle e la sua riforma costituzionale di tipo presidenziale salvarono la Francia e gli stessi partiti che ritrovarono nel tempo la capacità di selezionare nuova classe dirigente, dai Mitterrand ai Pompidou e agli Chirac per finire a Jospin, Strauss-Kahn, Ségolène Royal e Nicolas Sarkozy.

Ci costa sostenere una repubblica presidenziale perché la nostra cultura costituzionale è da sempre per una democrazia parlamentare. Questa , però, richiede grandi partiti, culturalmente autorevoli e con un consenso di massa. Quando, per quindici lunghi anni, avviene l’esatto contrario con la miniaturizzazione dell’intero panorama politico e con un ridicolo cesarismo, l’alternativa che si pone non è più tra due tipi di democrazia. L’alternativa , a questo punto, è tra la democrazia tout court e un nuovo autoritarismo. E la scelta non può che essere per un modello istituzionale capace di arrestare la deriva leaderistica e peronista in atto nel paese.

Il presidenzialismo occidentale non è l’incoronazione di un demiurgo, ma è un modello di pesi e contrappesi che prevede due sovrani democratici, il presidente e un libero Parlamento, costretti a dialogare e a contenere, nello stesso tempo, le reciproche tentazioni di eccesso di potere. Come ho più volte scritto, il tempo per arrestare lo sfascio è davvero scaduto. O un gruppo di persone si mette sulle spalle l’interesse del paese o il Big Bang del sistema politico è davvero vicino.

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Federalismo parola magica

 

Avete mai visto uno Stato unitario federarsi? Io no. Al contrario ho sempre visto più Stati che si federavano tra loro in uno Stato unitario. La storia degli Stati Uniti, della Germania, del Canada è questa, tanto per citare i tre maggiori paesi con un sistema federale. Ma ancora nessuno ha compiuto il cammino contrario. Al massimo lo potrà fare l’Iraq del dopo Saddam, dividendo il vecchio Stato in Stati federali, uno dei sunniti, uno degli sciiti e uno dei curdi. Ma si tratterebbe del primo caso al mondo legato al fatto che un vero e proprio Stato unitario l’Iraq non l’ha mai avuto (al suo posto c’è stato un assemblaggio delle tre etnie peraltro sempre in guerra l’una con l’altra). I casi del Belgio e dell’Austria non fanno scuola. Il primo ha due etnie, due lingue e due religioni e rischia di scivolare verso la separatezza. La seconda è un paese più piccolo della Lombardia.

In tutti gli Stati federali, inoltre, vi sono grandi forze politiche nazionali che costituiscono quel cemento che tiene saldamente insieme le istituzioni federate. I democratici e i repubblicani negli Usa, così come i democristiani, i socialisti, i verdi, i comunisti e i liberali in Germania.

Quando il cammino istituzionale è contrario (lo Stato unitario che si divide in Stati federali), la politica risponde con la frantumazione territoriale, partorendo forze regionalizzate che finiscono per scivolare in uno scontro tra le rispettive popolazioni. Uno scontro silente e progressivo che ben presto si trasforma in separatezza.

È quello che è accaduto in Italia, dove da 15 anni parliamo di passare da uno Stato unitario a uno Stato federale e puntualmente si sono sviluppate forze politiche regionalizzate. La Lega Nord è la più forte ed è presente in maniera significativa in 5 regioni del Nord. A essa, però, si sono aggiunte nel Veneto la Lega di Panto (un imprenditore poi morto in un incidente aereo), il gruppo dell’europarlamentare Giuseppe Carollo che a Vicenza nelle ultime amministrative ha preso il 7 % ed è forte di alcuni consiglieri regionali e di molti consiglieri comunali. In Liguria è sorto il gruppo dell’ex presidente Sandro Biasotti che ha preso il 9 % nelle elezioni regionali del 2005 e il 6% nelle successive elezioni amministrative di Genova. In Sicilia c’è il movimento autonomistico di Raffaele Lombardo, europarlamentare democristiano staccatosi dall’Udc che ha portato in Parlamento quattro deputati e due senatori. Fibrillazioni  in questa direzione esistono ormai in tutte le regioni e finanche un uomo come il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, nato e cresciuto in un grande partito istituzionale come l’ex Pci, incomincia a parlare di una struttura federale del nuovo Partito democratico.

Piaccia o no, questo processo è una dolce frantumazione del paese, ben diverso dall’Italia unitaria che è stata costruita in novant’anni di vita del Regno e in sessant’anni di vita repubblicana. Questo era un paese fatto di comuni e regioni sempre più autonome ma uniti da grandi forze politiche nazionali e di massa. Il pensiero politico debole che da 15 anni svolazza sulle nostre teste ha invece abbracciato, senza neanche  capirne fino in fondo il significato, l’dea federalista che forse proprio federalista non è ma nessuno sa esattamente cosa sia. Per non parlare, poi, del federalismo fiscale, altra araba fenice dai contenuti tutti ancora da chiarire.

Intanto, però, si stanno già verificando per intero gli effetti disgregativi di queste scelte. Le istituzioni periferiche vengono lasciate in balia dei nuovi signori locali del potere, ciascuno dei quali si ritiene investito di una missione salvifica da gestire in una solitudine autoreferenziale e narcisistica. Per questo sono esplose consulenze, incarichi pubblici, centinaia di società partecipate, assunzioni a chiamata diretta, oltre le spese di funzionamento delle rispettive istituzioni, comprese le nuove “ambasciate regionali” che impazzano in tutto il mondo. Il risultato è quello che vediamo davanti a noi: un’Italia decadente, frantumata e sempre più dedita alla rissa da cortile che si culla in una prospettiva di federalismo che non sta né in cielo né in terra. E speriamo che nessuno metta sullo stesso piano la richiesta di autonomia della Scozia o dell’Irlanda del Nord con questo provincialismo culturale di una classe dirigente come quella italiana che, non sapendo affrontare le grandi sfide del terzo millennio e della globalizzazione, ripete concetti e parole spesso senza senso plagiata com’è da urla scomposte di alcuni e dal risentimento crescente delle regioni più produttive contro uno Stato inefficiente. Il paese non va seguito attraverso i sondaggi, lo ripetiamo, ma guidato da un pensiero politico forte e da una classe dirigente all’altezza della situazione. Altro che federalismo.

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La decadenza

 

Da tempo incombe sull’Italia l’ombra lunga di un declino progressivo. Un declino politico, economico e sociale. Una brutta parola il declino. È sinonimo di decadenza e spesso testimonia la fine di un’epoca, di un ciclo vitale, come nel passato, la fine di un regno o di un impero. Il termine è brutto perché ha dentro di sé il nucleo di uno scadimento morale che tutto condiziona e tutto inquina. Nelle democrazie è il declino politico quello che precede tutto ed è causa della generale decadenza di un paese. E il declino politico si ha quando non c’è più un quadro di valori e di culture a cui ancorarsi nella vita parlamentare e forse, più ancora, quando non si intravede più un orizzonte comune cui tendere.

Ma come mai improvvisamente nella vita di un paese irrompe la decadenza? Quali sono gli elementi che annunciano l’esaurirsi di un ciclo vitale della politica e quindi di un’intera comunità? In Italia, dopo i tremendi anni Settanta in cui esplosero le mine a scoppio ritardato del 1968, vennero gli anni Ottanta durante i quali si ricomposero lentamente quelle fratture politiche e sociali che tanti lutti avevano provocato anni prima, bruciando definitivamente molte giovani vite. Gli anni Settanta furono quelli degli slogan del “salario come variabile indipendente” o “lavoriamo meno per lavorare tutti”, vissuti come sottofondo dell’utopia della lotta armata che generò solo terrorismo ma mai un movimento politico. Gli anni Ottanta rividero il ritorno della politica. Le fratture si ricomposero tra i due blocchi contrapposti, il Pci di Enrico Berlinguer e il pentapartito di Bettino Craxi e di Ciriaco De Mita, e gli scontri, durissimi, tornarono nelle aule del Parlamento con la battaglia sulla scala mobile. La società italiana rivide la speranza e con essa coltivò l’ottimismo, anche se la lunga coda del terrorismo e la battaglia contro l’inflazione a due cifre generarono quel debito pubblico che ancora oggi pesa sui nostri conti come un macigno.

Pochi ricordano però che a quell’epoca il debito pubblico era tutto interno. Quando si diceva che ogni italiano nasceva con venti milioni di lire di debito ci si dimenticava di aggiungere che aveva diciannove

milioni di credito perché i titoli di Stato erano per oltre il 90 % nelle mani delle famiglie italiane. Insomma era un debito che non cedeva alcuna sovranità alla finanza internazionale e che avrebbe richiesto almeno dieci anni per ricondurlo entro limiti accettabili. Purtroppo nel 1990 una scelta scellerata di Carlo Azeglio Ciampi collocò la lira nella banda stretta di oscillazione del sistema monetario europeo. Quella decisione impose una politica monetaria di alti tassi di interesse che scaricò sul bilancio dello Stato 20 mila miliardi annui di maggior spesa, aumentando così il debito pubblico vertiginosamente e portando dritto alla svalutazione del settembre 1992 e alla fine del sistema monetario europeo. Era la tesi del vincolo esterno che avrebbe dovuto spingere governo e Parlamento a comportamenti più virtuosi. In realtà era solo l’alibi per mettere in ginocchio il paese e prepararlo alla stagione di Tangentopoli.

Il ciclo degli anni Ottanta fu a tutti gli effetti, e nonostante le difficoltà, un ciclo positivo. Oltre due terzi del paese si riconoscevano in due grandi partiti di massa, la Dc e il Pci. Entrambi, e unitamente agli altri partiti di governo, avevano scelto la democrazia parlamentare come sistema politico cui essere fedele. E lo furono sino al 1992. La caduta del muro di Berlino, ma più ancora lo sgretolamento dell’impero sovietico e la fine del comunismo internazionale, determinarono però un duro contraccolpo in Italia, dove un terzo del paese si riconosceva nel Pci e dove la maggioranza degli intellettuali o era organica alla sinistra o verso la sinistra aveva una sorta di subalternità culturale ed accademica. Insomma un intero mondo, composto di milioni di militanti politici, molte centinaia di intellettuali e di migliaia di cooperative di ogni genere, improvvisamente si accorse di non avere più un punto di riferimento autorevole, un ancoraggio sicuro come quello scomparso e sul quale aveva costruito la propria vita e il proprio futuro. Fu come se un terzo del paese fosse imploso con il lancio di frammenti culturali e politici da ogni parte. Frammenti che colpirono a morte democratici e riformisti perché dietro quei frammenti spuntò all’orizzonte quel mostro che alligna sempre nelle viscere profonde di una società, e cioè una progressiva illiberalità.

Il 1992 e il 1993 furono gli anni in cui i partiti venivano descritti come covi del malaffare. Il messaggio che cresceva nel paese era quello di una chiamata alle armi dei tecnici, degli imprenditori e di chiunque avesse un minimo di ruolo nella mitica società civile perché nelle loro mani venissero affidate le sorti dell’Italia. Una umanità vociante e illiberale, dilettantesca e arrogante entrò e occupò i palazzi della politica con l’aiuto di una sinistra ormai senza più ideali e perciò interessata solo alla conquista del potere. Con la crisi del comunismo internazionale, il vecchio Pci aveva l’urgenza di riciclarsi su valori profondamente diversi da quelli predicati per decenni. Non avendone più da offrire, l’unico valore trovato fu la presunta diversità morale rispetto ai partiti di governo.

La storia di questi anni ha dimostrato la falsità di queste tesi. Il Pci aveva finanziamenti illegali più di tutti gli altri partiti, perché le sue fonti erano molteplici (Urss, cooperative, imprenditori come De Benedetti, Gardini, Marchini e tanti altri, oltre agli enti previdenziali). Eppure sono riusciti a lanciare la “questione morale”, le “mani pulite”, usando così, come denunciò lo stesso Gerardo Chiaromonte, l’opzione giudiziaria come scorciatoia per arrivare al potere: mentre in tutti gli altri paesi d’Europa i comunisti venivano cacciati dai palazzi e sparivano, qui la grande borghesia finanziaria italiana li portava per la prima volta al governo.

Dal canto suo, questa borghesia finanziaria otteneva un duplice scopo: liberarsi dei partiti popolari di massa che erano d’intralcio al suo disegno di potere e portare alla guida del paese i cosiddetti “tecnici”, alla Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini o Romano Prodi. Per ottenere questo scopo sono stati usati sia il Partito comunista, nelle funzioni di “guardiano del territorio”, sia l’azione dei referendari di Mario Segni, che aprirono le porte al sistema maggioritario. Questa è stata l’operazione condotta dal cosiddetto salotto buono del capitalismo italiano, guidato da Carlo De Benedetti e Cesare Romiti, con la regale benedizione dell’avvocato Agnelli e il duro fiancheggiamento dei due maggiori giornali italiani, il Corriere della Sera di Paolo Mieli e la Repubblica di Eugenio Scalfari.

L’implosione del mondo comunista e  l’uragano di tangentopoli relegarono in soffitta tutte le culture politiche del Novecento. Non solo quelle sconfitte dalla storia, il comunismo e il fascismo, ma anche, e forse soprattutto, quelle che avevano vinto e cioè le culture del socialismo riformista, del popolarismo democristiano e del liberalismo. Nacquero dei sillogismi a catena: fine del comunismo, fine della politica tout court, nascita del leaderismo e battesimo del partito personale di cui ogni leader era addirittura giuridicamente proprietario. Da quella implosione emerse la personalizzazione della politica, quella che Massimo Cacciari definì la visione imperiale della politica e che trovò in Giuliano Ferrara un predicatore convincente e in Silvio Berlusconi un testimone seducente. Un testimone capace in tre mesi di riempire quel vuoto politico lasciato dalla Dc e dall’intero pentapartito e vincere, così, le elezioni del 1994 dando vita a un ciclo dell’antipolitica i cui effetti non si sono ancora placati.

Dietro la decadenza della politica arrivarono poi quella dell’economia e quella dell’etica, e arrivarono pure la concezione del mercato come supremo reggitore dell’equilibrio sociale del paese, il crollo della competitività del sistema produttivo italiano, le continue rapine fatte ai piccoli risparmiatori, che a volte esplosero in casi eclatanti come Parmalat e Cirio. Insomma dalle macerie della politica alle macerie morali ed economiche. Macerie di un paese in declino.

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Più pubblico dentro il mercato

 

Se, dunque, nelle democrazie occidentali l’influenza dei grandi interessi economici è così invasiva, quale può essere la risposta più efficace? Dal momento che questi interessi si formano e crescono nel mercato è forse contro quest’ultimo che bisogna riprendere la battaglia? Assolutamente no. Il mercato è l’espressione di una liberà irrinunciabile. In esso, però, sono presenti forze ed interessi a cui non può essere chiesto di garantire sviluppo sostenibile ed equa distribuzione della ricchezza. Chi pensa che si possa governare il mercato con le Opa, le Borse, le varie regole e discipline societarie, sogna a occhi aperti: quelle regolamentazioni difendono gli interessi economici gli uni degli altri (il che non è cosa di poco conto, naturalmente), ma non governano assolutamente il rapporto tra mercato e società nazionali, tra crescita economica e crescita civile.

Come fare allora per “governare” il mercato difendendo le sue leggi ma nel contempo anche l’assetto democratico delle società nazionali? L’unica soluzione è la presenza del capitale pubblico nel mercato. Così facendo si interrompe, o per meglio dire, si contiene l’intreccio sempre più intimo tra interessi, denaro, informazione e classi dirigenti che sta diventando il nuovo assetto del potere nelle democrazie occidentali. Nessuno pensa, naturalmente, a vecchi statalismi o a dirigismi economici che sono miseramente falliti nel corso del tempo. Il mercato, però, è neutrale rispetto alla natura della proprietà delle aziende, quali che siano le loro dimensioni. Se le regole del mercato sono rispettate perché mai i petrolieri privati dovrebbero avere l’esclusiva nel mondo del gas e del petrolio a fronte di una Eni o di una Total?

A nessuno può sfuggire che se alcune di queste aziende hanno un azionista pubblico che risponde da un lato al mercato e dall’altro a un libero Parlamento, si mette un cuneo capace di rompere o limitare quell’intreccio di interessi e informazione che nella stagione della globalizzazione è diventato un potente egemone ed autoreferenziale. È questo il nuovo equilibrio che può coniugare sviluppo e democrazia. Contro questo equilibrio da anni sono impegnati alcuni grandi organi di informazione, che mai come negli ultimi tempi rappresentano quel perverso cortocircuito finanza-informazione di cui abbiamo parlato e che genera un potere che vuole essere politico e governare così un paese senza mai lasciarsi votare.

Naturalmente la presenza pubblica presuppone uno Stato democratico, con un Parlamento libero e autorevole. Altra cosa, infatti, sono le aziende pubbliche di paesi ancora lontani dalla democrazia parlamentare, come la Russia di Putin o la Cina o tanti altri paesi dell’Est Europa o dell’Asia. In quei casi, infatti, dall’egemonia del mercato che si fa potere politico si passerebbe a una politica che si fa forza economica senza alcun controllo democratico.

Ed è quanto sta avvenendo con i cosiddetti “fondi sovrani” cinesi, russi e di tanti paesi asiatici. Fondi pubblici che hanno centinaia di miliardi di dollari in pancia e che hanno iniziato da un paio di anni a questa parte a fare shopping, di aziende in tutto l’occidente. Se ne sono subito accorti la Merkel e Sarkozy che hanno incominciato a mettere a punto strategie utili per contrastare la nuova arma della geopolitica, quella del denaro. Mentre in Occidente, e in particolare in Italia, il potere economico-finanziario sta piegando sempre più la politica ai propri interessi, in Estremo Oriente sta avvenendo l’esatto contrario, è la politica ad usare come un’arma atomica la forza della finanza alimentata o dalle enormi riserve energetiche o da tassi di sviluppo altissimi favoriti dai bassi costi di produzione per manufatti che stanno invadendo i mercati mondiali. In entrambi i casi è la democrazia a farne le spese e lo strumento che può contenere gli eccessi dell’uno o dell’altro sistema è proprio una presenza pubblica nell’economia di mercato dei paesi occidentali. Essa rappresenta la più sicura difesa contro l’invadenza dei fondi sovrani cinesi e russi ma anche contro il crescente strapotere degli interessi economico-finanziari dell’Occidente.

Se Montesquieu vivesse oggi, la sua famosa separazione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario) si arricchirebbe anche dell’informazione e della finanza. La crescita dell’intreccio fra questi ultimi, infatti, ha pesantemente indebolito tutti e tre i poteri descritti da Montesquieu. Anzi, da alcuni anni, quell’intreccio è partito alla conquista di uno dei tre poteri, quello giudiziario, l’unico fra i tre a non avere un controllo democratico. Se questa “conquista” dovesse essere portata a termine, lo sviluppo non potrebbe più coniugarsi con democrazia ma solo con la parola “élite”. Il governo elitario rischia, così, di essere il nuovo assetto politico delle società nazionali. Un assetto che con la democrazia  così come l’abbiamo conosciuta nella seconda metà del Novecento ha al massimo qualche lontana parentela.

La nuova battaglia da fare è riportare un giusto equilibrio di potere fra economia e politica. L’unica strada che vediamo praticabile, dunque, è quella di aumentare, all’interno del mercato e rispettando le sue regole, il ruolo del pubblico. Allo slogan: “Meno Stato più mercato” bisognerebbe oggi opporre un nuovo slogan: “Più pubblico dentro il mercato”.

Fateci caso: lo smantellamento delle partecipazioni statali in Italia durante gli anni Novanta è andato di pari passo con il crollo della competitività dell’intera economia a partire dal 1995, negli ultimi due lustri l’Italia ha registrato annualmente, quale che fosse il colore del governo, un tasso di incremento delle produttività del lavoro di due punti inferiore alla media degli altri paesi della zona euro, lasciando, così, sul terreno crescenti quote di esportazione. Contestualmente è aumentata la autoreferenzialità del nostro sistema del credito, sviluppando vere e proprie enclave di potere personale come dimostrano i casi di Cesare Geronzi, di Giovanni Bazoli e di Alessandro Profumo.

La riscoperta, negli ultimi tempi, del valore della italianità in alcuni segmenti dell’attività economica è stata una svolta copernicana in quel conformismo che ha caratterizzato la seconda metà degli anni Novanta e i primi anni del terzo millennio, durante i quali liberalizzazione e privatizzazione hanno costituito la dimensione salvifica del pensiero unico economico. Adesso, invece, si parla di mantenere in mani italiane, noi diciamo parzialmente in mano pubblica, che non è solo quella dello Stato, tutte le reti, da quelle delle telecomunicazioni, alle autostradali per finire a quelle energetiche (elettricità e gas). Scorporate le reti dai servizi e mantenerli parzialmente in mani pubbliche è già un passo avanti rispetto alle follie del passato.

Una consapevolezza recente della classe politica come dimostra il fatto che tutte le reti erano state privatizzate insieme ai servizi (Telecom, Autostrade) e al 70 % dell’Eni e dell’Enel. La cultura dominante degli anni Novanta, con lo sperticato elogio delle privatizzazioni ad ogni costo, nascondeva in realtà il vero obiettivo del capitalismo italiano o, meglio, del cosiddetto salotto buono e dei suoi referenti della finanza

internazionale: andare all’assalto della diligenza pubblica e prendere parte rilevante del bottino con l’aiuto, in alcuni settori come il credito, di “tribù straordinarie” prevalentemente francesi, olandesi e angloamericane. Così quel salotto buono passava direttamente dall’industria manifatturiera alla finanza e alla rendita da utilities, che spesso erano monopoli naturali o frutto di posizioni egemoniche in mercati liberalizzati.

Ferruccio De Bortoli, uomo di sistema ma di notevole libertà intellettuale, agli inizi del 2000 mi confidò che queste mie tesi, scritte in quegli anni, avevano fatto riflettere e cambiare idea a molti. Nella stagione della globalizzazione la sovranità di un paese non si difende con gli eserciti schierati sui confini territoriali ma mantenendo nelle proprie mani, pubbliche o private che siano, finanza, ricerca e formazione. In quindici anni di debolezza della politica, in tutti e tre i settori siamo andati a picco e l’Italia rischia di essere sul terreno dello sviluppo poco più che un’espressione geografica. Insomma un mercato di consumatori e di produttori per conto terzi senza alcuna possibilità di essere coinvolta nel riassetto del capitalismo europeo.

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Un serpente monetario mondiale

 

Uno strumento di pace e di sviluppo in un mondo sempre più ricco di povertà potrebbe essere un nuovo ordine monetario. Come lo furono nel 1943 gli accordi di Bretton Woods. Il Fondo Monetario Internazionale, dal quale provengono molte autorità finanziarie, come il nostro Mario Draghi, appare sempre più come il Gran Sacerdote del disordine: lo sostengono anche alcuni grandi economisti che ne hanno visto da vicino il funzionamento. Detto questo, però, è impossibile, oltre che indesiderabile, tornare indietro, cioè a Bretton Woods, ai cambi fissi e ai capitali (relativamente) immobili. Ma non è possibile trovare una soluzione intermedia tra il ritorno alla regolazione rigida e l’attuale condizione di sregolatezza?

Certamente. Di soluzioni possibili ce ne sono molte, ma per essere efficaci richiedono riforme capaci di agire sulle radici dell’instabilità e dell’asimmetria. Con un salto nell’utopia, si può immaginare, allora, di instaurare una moneta unica mondiale. Anche Keynes ci andò vicino quando propose il bancor, che per lui era un ammortizzatore (politicamente neutrale) degli choc internazionali, non una moneta reale, com’è oggi l’euro. Ma basta proprio evocare la grande impresa dell’euro, con le sue promesse ma anche con le sue grandi incognite, per capire che, almeno nelle condizioni politiche attuali, è impossibile pensare di ripetere l’operazione su scala mondiale.

Una soluzione anch’essa radicale, ma non utopistica, è quella intravista sempre da Keynes a Bretton Woods e ripresa recentemente da alcuni studiosi. Poiché la radice dell’instabilità e dell’asimmetria sta nella posizione dominante del dollaro come moneta internazionale di riserva, la soluzione radicale è di consentire a tutti i paesi aderenti all’accordo di regolare i loro pagamenti esterni in moneta nazionale, attraverso un grande sistema centralizzato di clearing. Naturalmente, si tratta di una soluzione tutt’altro che pacifica. Non a caso il progetto di Keynes fu sdegnosamente respinto, allora, dagli americani. Questa proposta, però, indica la strada sulla quale si può arrivare, attraverso tappe realistiche e praticabili, all’eliminazione dell’asimmetria e dell’instabilità. Insomma, regole nuove per i cambi e per i movimenti di capitale.

Sul terreno dei cambi in sede di commissione Affari economici e monetari del Parlamento ho ripreso una vecchia proposta a mio giudizio più che mai attuale, di istituire, per le monete fondamentali, zone- obiettivo entro le quali contenere le oscillazioni, grazie a una gestione flessibile congiunta delle rispettive banche centrali. Un sistema praticabile, come dimostrarono gli accordi del Plaza del 1985 e del Louvre del 1987, oltre che la nascita del sistema monetario europeo del 1979. Se all’euro, al dollaro e allo yen si aggiungono anche la sterlina e lo yuan cinese, avremmo un serpente monetario mondiale che restringerebbe ulteriormente l’area della instabilità e dell’asimmetria: un sistema flessibile dei cambi simile a quello adottato dall’Europa contrasterebbe, infatti, in maniera più efficace la finanziarizzazione dell’economia mondiale. Per capirne gli effetti positivi che ne deriverebbero bisogna spendere, però, qualche parola sui movimenti di capitale.

I vantaggi della libertà di movimento dei capitali sono indiscutibili quando si tratta di veri investimenti. Sono molto più discutibili quando si tratta di flussi (e riflussi) finanziari di breve periodo, per lo più speculativi. La proposta di Tobin, di “gettare qualche granello di sabbia” negli ingranaggi eccessivamente scorrevoli del mercato con una imposta marginale e generale, è ben nota. È diventata, a dispetto di Tobin, un vessillo no global. Sono note anche le obiezioni. Tre di queste sembrano particolarmente fondate. La prima: è estremamente difficile che l’imposta possa essere effettivamente generale. La seconda: sarebbe facile eluderla, oggi, attraverso l’impiego di quei prodotti dell’innovazione finanziaria che sono nel frattempo intervenuti, i “derivati”, che consentono di occultare quei movimenti immergendoli come sottomarini e facendone emergere solo i risultati netti. La terza: è difficile individuare il soggetto dell’imposta e la sua gestione.

Il problema, comunque, resta aperto e a esso va trovata una soluzione per contrastare l’eccessiva finanziarizzazione dell’economia mondiale che toglie valore ai prodotti, all’industria e al commercio per darlo alla finanza. È giunto, inoltre, il momento di armonizzare la legislazione e il sistema di controllo dei mercati finanziari europei per impedire che ciò che non si può fare in Italia si vada a farlo in Lussemburgo, da dove si inondano le piazze finanziarie di obbligazioni di ogni tipo. Il coordinamento tra le autorità di controllo è indispensabile per contrastare la grande criminalità economica e il flusso di denaro sporco che tenta di riciclarsi. E bisogna disboscare i “paradisi fiscali”, veri e propri centri di inquinamento e di infezione della finanza internazionale, finora trattati come santuari da tutti i governi, di destra e di sinistra: un’azione che dovrebbe essere perseguita con la stessa determinazione con la quale si combatte la criminalità organizzata, ancorché globalizzata.

Un nuovo contesto di regolazione come quello appena tracciato esige ovviamente un Grande Regolatore. Manifestatamente il Fondo monetario è un pessimo regolatore. Come arbitro, è chiaramente un arbitro di parte. Nella sua impietosa requisitoria il premio Nobel Joseph Stiglitz afferma che – nato per realizzare gli ideali di una politica capace di promuovere l’interesse generale e un’economia più prospera e più giusta – il Fmi è divenuto l’arcangelo di un credo fondamentalista liberista e il garante degli interessi della comunità finanziaria internazionale. Global e no global estremisti si trovano concordi nella richiesta che il Fmi sparisca, o sia “minimizzato”. Si tratta di un grave errore. Il Fondo deve essere rafforzato e trasformato, radicalmente: nei suoi orientamenti, nelle sue funzioni, nella sua struttura. Nei suoi orientamenti morali, innanzitutto. Esso predica un liberismo falso e bugiardo. Predica libertà assoluta dei movimenti di capitale, senza mai parlare della libertà dei movimenti dell’altro fattore produttivo, il lavoro; e non combatte gli ostacoli alla libera circolazione dei prodotti, quando questi ostacoli proteggono gli interessi dei paesi ricchi. Predica l’austerità e il rigore delle politiche monetarie restrittive ma solo per i paesi del Terzo e Quarto mondo fingendo di non vedere, ad esempio, lo scialo americano.

Il Fondo, inteso come una grande banca mondiale unica di un mondo pacifico, non dovrebbe essere “committed” né a un paese né alla comunità finanziaria. Non dovrebbe svolgere attività missionaria per alcuna ideologia, soprattutto se chiusa e fondamentalista. Non dovrebbe fungere da strumento di pressione di alcun potere estraneo ai fini specifici della sua esistenza. E i suoi fini specifici non dovrebbero riguardare né la difesa dell’Occidente né alcuna fede immanente o trascendente, ma solo la stabilità e la prosperità di tutti i paesi, con particolare riguardo a quelli più poveri, e il benessere di tutte le donne e gli uomini di questo mondo.

La Banca – Fondo dovrebbe essere autorizzata dal suo rinnovato Statuto ad emettere “moneta mondiale” (gli attuali Dsr, diritti speciali di prelievo) ben al di là degli attuali limiti, creando liquidità internazionale nella misura sufficiente a sostenere gli sforzi dei paesi che perseguono una crescita non inflazionistica mirante al pieno impiego delle risorse. Dovrebbe gestire il sistema di oscillazione dei cambi tra le grandi monete in modo da mantenerle entro i limiti previsti. Dovrebbe gestire gli squilibri e le crisi dei pagamenti mettendo sullo stesso piano, di attenzione e di protezione, gli interessi dei paesi creditori e quelli dei paesi debitori, eliminando gli scandalosi privilegi riconosciuti oggi a chi rischia i propri denari, avendo assunto consapevolezza dei rischi, rispetto a chi rischia il proprio lavoro, senza aver assunto un bel niente. Dovrebbe intervenire non soltanto sui mercati monetari, ma anche su quelli finanziari. Dovrebbe favorire la cancellazione dei debiti dei paesi che impegnano nel pagamento degli interessi una quota rilevantissima del ricavato delle loro esportazioni. E soprattutto, secondo un suggerimento avanzato da Soros, dovrebbe promuovere un meccanismo di trasferimento continuo di diritti speciali di prelievo riconosciuti dai paesi più ricchi ai paesi più poveri, attraverso il finanziamento di progetti di sviluppo selezionati da gruppi di esperti.

È evidente che un salto di qualità dall’attuale Fondo al nuovo Fondo – Banca comporta una rifondazione della sua struttura e del suo “azionariato”, con il superamento del potere di veto praticamente detenuto dagli Stati Uniti e il riconoscimento di un’adeguata influenza ai grandi paesi emergenti. Di questo e di altro scrissi nel predisporre il programma dell’Udeur per le elezioni politiche europee. Ne scrissi pure su autorevoli settimanali e quotidiani sollecitando un dibattito al Parlamento europeo, anche attraverso specifiche interrogazioni e domande a Jean-Claude Trichet, il presidente della Banca Centrale Europea. Ma il dibattito, purtroppo, deve ancora cominciare.

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