Gioventù buttata

pubblicato venerdì 11 luglio 2014 su Il Foglio Quotidiano

Noi siamo, per vocazione antica, governativi e questa natura ci obbliga ad essere sempre molto attenti a tutti i provvedimenti che ogni governo in carica produce. Lo diciamo con chiarezza perchè non vorremmo passare per “bastian contrari” dal momento che non lo siamo come dimostra l’intera drammatica vicenda del governo Monti. Quel presidente del consiglio fu sin dall’inizio criticato da noi sui singoli provvedimenti e sulle politiche messe in atto. Creammo scandalo perchè il Paese lo idolatrava pensando di aver trovato un moderno Mosè capace di guidare la gente italica nella terra promessa del risanamento dei conti pubblici. Oggi a parlar bene di Monti non c’è più nessuno. Tutta questa premessa solo per dire che quanto ci apprestiamo a scrivere su Renzi e il suo governo non è figlio di un pregiudizio contrario, anzi, ma i governi vanno aiutati criticando e suggerendo. E veniamo al punto che, in questa occasione è la ennesima riforma della pubblica amministrazione presentata dal governo Renzi (per essere precisi la quarta nel ventennio ultimo). Diciamo subito che l’approccio a quello che è un tema di fondo per recuperare competitività e attrarre investimenti esteri è ancora una volta sbagliato. E ci spieghiamo. Il grosso delle norme di questa ennesima riforma riguarda infatti il personale della pubblica amministrazione (mobilità, dirigenza pubblica, trattenimento in servizio di quanti devono andare in pensione, permessi sindacali, e via di questo passo) mentre la semplificazione amministrativa, vero obiettivo da raggiungere, viene affidato ad una intesa ancora da definire tra Stato e Regioni entro e non oltre il 31 ottobre prossimo (ma perchè per definire una intesa tra Stato e Regioni c’è bisogno di una legge che l’annuncia?!?). Leggendo attentamente la cosiddetta norma semplificatrice si vede che gli accordi tra Stato e Regioni dovevano produrre una modulistica unica “per le istanze, dichiarazioni e segnalazioni da presentare alle amministrazioni pubbliche con riferimento all’edilizia e all’avvio di attività produttive”. È inutile dire che per questo obiettivo viene istituito l’ennesimo comitato “interistituzionale” ma quel che ci appare ancora più grave è il fatto che non viene sancito il principio che la pubblica amministrazione debba presentare essa una “carta aziendale” con la quale indica gli obblighi che chiunque voglia intraprendere una attività produttiva deve rispettare dando ad uno solo sportello regionale la notizia dell’inizio della propria attività. La pubblica amministrazione farà, poi, i controlli postumi entro un determinato lasso di tempo. Così si raggiunge l’obiettivo tanto declamato “l’impresa in un giorno”, invertendo, cioè, gli obblighi tra operatore e pubblica amministrazione. Basta, dunque, chiedere permessi, autorizzazioni, certificati e quant’altro al cittadino che vuole lavorare il quale, al contrario, deve solo sapere gli obblighi cui deve sottostare pena sanzioni nei controlli successivi. Di questa soluzione così banale nessuna traccia. Una modulistica unica è, certo, una cosa utile ma se con un modulo unico e standardizzato dobbiamo chiedere decine di permessi siamo lontanissimi dall’obiettivo della semplificazione. In 20 anni si sarebbe dovuto comprendere qual era e qual è ancora oggi il nocciolo burocratico da superare che non sono i burocrati come dice Renzi ma l’impaccio normativo e autorizzativo, vero tormento del cittadino e dello stesso funzionario pubblico. Detto questo, anche sulla mobilità ci sono errori grossolani. Il primo, e anche il più importante, è quello di avere escluso dal bacino della mobilità con le altre amministrazioni pubbliche gli enti locali che rappresentano una parte cospicua dei pubblici dipendenti tenendo presente, inoltre che in molte amministrazioni centrali (interni, difesa) la mobilità dei dipendenti è già attuata. Quando nel 1988 noi attivammo la mobilità volontaria, dopo un breve braccio di ferro con Comuni e Province, tenemmo dentro il processo di mobilità anche gli enti locali e in prima applicazione su circa 9000 trasferiti il 32% era da o verso i Comuni. E infine è utile ricordare che il primo processo di mobilità dei pubblici dipendenti nel 1988 fu attivato con un semplice decreto del presidente del consiglio (DPCM) a testimonianza che in questi 20 anni si è dimenticato l’uso dell’alta amministrazione aprendo, così, la porta ad una bulimia legislativa per giunta sciatta e generica tanto da richiedere, come una matrioska, una successiva miriade di decreti attuativi che non arrivano mai (sono oltre 500 quelli che aspettiamo ancora). Morale della favola: nei governi come nella vita, la giovinezza è una opportunità che priva di esperienza viene solo scioccamente sciupata.

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