La politica può rimediare alle colpe della finanza

articolo pubblicato il 26 febbraio 2015 sul Corriere della Sera

Mai come questa volta l’eurozona, e con essa l’Unione Europea, con l’accordo raggiunto con la Grecia si è fermata sul ciglio del burrone dimostrando ancora una volta che se non entra la politica a sciogliere nodi intricati il disastro è assicurato. In questi mesi è emerso nel dibattito sulla vicenda greca un’antinomia sbagliata. Contrapporre il diritto dei creditori e gli obblighi dei debitori ai bisogni elementari delle popolazioni, infatti, è un errore grave e ci porta a discutere sui massimi sistemi piuttosto che trovare un punto di incontro tra due diritti ciascuno dei quali ha ragioni da vendere. Nella storia della umanità la difesa del danaro è stata sempre vincente sull’uomo e sui suoi bisogni elementari a cominciare dalla libertà. Anche nel nostro tempo la sua tutela è fortissima generando spesso una risposta popolare uguale e contraria capace di alimentare movimenti politici e culturali estremistici. E lungo questa direzione sbagliata il fondo monetario è sempre stato il protagonista principale, il depositario di un credo liberista e fondamentalista che predica rigore e austerità nei paesi del terzo o del quarto mondo producendo disastri umanitari come giustamente hanno stigmatizzato tanti premi Nobel, da Stiglitz a Krugman. E anche su questo versante più generale lo scontro tra austerità con annesso pareggio di bilancio e crescita a debito infinito è un falso problema che poggia su basi polemiche e strumentali. La crescita ha bisogno di debito, ma quanto basta perché sia sostenibile, così come ha bisogno di austerità ma quanto basta per evitare recessione mentre sembra che l’Europa si divida su questo terreno tra curva nord e curva sud. La crisi dell’economia reale che ha colpito larga parte del mondo, e innanzitutto l’Europa, nasce da un nodo strutturale che viene taciuto non solo dai governi ma anche da larga parte del pensiero economico e politico. Ci riferiamo alla nascita ed alla crescita impetuosa di quel capitalismo finanziario che rappresenta per molti di noi il figlio degenere di quella economia di mercato che fu difesa strenuamente, e spesso con la vita negli anni settanta in Italia, dal cattolicesimo politico. Anche  oggi Papa Francesco ci mette in guardia dalla tirannia del danaro che non è lo sterco del diavolo ma neanche il totem dinanzi al quale genuflettersi. E ciò che diciamo non nasce nè dalla fede nè da una cultura antica ma da quello che  vediamo da oltre venti anni. La finanza da infrastruttura al servizio della produzione di beni e servizi si è trasformata in una industria a se stante in cui la materia prima sono soldi e il prodotto sono più quattrini attraverso la cosiddetta innovazione finanziaria. E la sua egemonia crescente sulla politica è dimostrata da un dato inoppugnabile. L’uso finanziario del capitale viene normativamente e fiscalmente privilegiato rispetto al suo uso produttivo con la conseguenza di profitti irragionevoli di natura finanziaria a fronte di profitti accettabili e difendibili dell’industria e dei servizi. Se questa anomalia continuerà a crescere le nazioni imploderanno. La vicenda greca, al netto della falsificazione dei conti pubblici dei governi di alcuni lustri fa e della quale una responsabilità per il mancato controllo sta anche sulle spalle della commissione europea, è un epifenomeno di questo nodo strutturale rappresentato dalla finanziarizzazione della economia che mina la crescita e alimenta crescenti disuguaglianze. La politica ha  gli strumenti per riportare alla “normalità” i fattori dello sviluppo economico per evitare che l’impoverimento di larghe fasce della popolazione anche nei paesi occidentali diventi il terreno di coltura di estremismi e di fanatismi di ogni tipo.

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