articolo pubblicato il 25 marzo 2015 su Il Foglio Quotidiano
Non si offenderà di certo il nostro amico Marco Tronchetti Provera se gli diciamo che le sue gesta ricordano quelle del grande Ettore Petrolini, il grande comico di inizio novecento capace di cambiare aspetto e profilo in pochi istanti per la gioia delle platee di tutta Italia (speriamo che anche il suo spirito non si offenda). Il più charmant dei nostri imprenditori, infatti, nello spazio di 36 mesi ha cambiato non solo l’abito della Pirelli ma il suo controllo vendendo e comprando azioni costringendo amici cari di mettere le proprie in una scatola capace di esercitare per l’appunto il controllo con l’unico permanente obiettivo di continuare ad essere il capo di un gruppo internazionale che fattura oltre 6 miliardi di euro. Un brand e una tecnologia tutta italiana lasciatogli in eredità dal matrimonio con Cecilia Pirelli, la grande famiglia che fondò in tre generazioni l’omonima industria. La crisi, le difficoltà, gli sperperi spinsero nel 2013 Marco Tronchetti Provera a costituire con le due maggiori banche, Intesa e Unicredit, e con il fondo Clessidra di Claudio Sposito una newco, la Lauro61, che controllava la Camfin a sua volta socio di controllo della Pirelli. Cuore di questa intesa era che lo stesso Tronchetti Provera stesse ancora 4 anni sulla tolda di comando della multinazionale italiana degli pneumatici. Quattro anni passavano troppo presto, e così il nostro simpatico Marco in capo ad un anno sciolse quel patto facendo guadagnare fior di quattrini al fondo Clessidra di Claudio Sposito e alle stesse banche vendendo ai russi della Rosneft, il colosso energetico di Igor Ivanovich Sechin, amico del cuore di Putin, il 50% della Camfin mentre l’altro 50% rimase nelle mani di una società costituita da Tronchetti, Intesa ed Unicredit. Anche in questo caso il frutto dell’accordo fu che la guida di Pirelli fosse lasciata a Marco Tronchetti Provera. Ma il nostro non aveva fatto i conti con la crisi ucraina e con le sanzioni internazionali alla Russia che misero in difficoltà finanziarie l’intera economia sovietica e naturalmente la stessa Rosneft che ha subito rappresentata la necessità di uscire dalla società di controllo della Pirelli a dispetto degli accordi che impedivano ai soci di vendere le proprie quote prima dei quattro anni. Niente paura. Il nostro, entrato in scena con il colbacco, torna subito dietro le quinte per ritornare di lì a qualche secondo sul palcoscenico con il codino della China National Chemical Corporation, colosso cinese da 40 miliardi di dollari di fatturato. Ma questa volta i cinesi non abboccano all’amo di Tronchetti e non vogliono comprare la quota che i russi avevano nella Camfin già depurata dal bubbone Prelios ma in cui il peso di Tronchetti era ancora determinante e dicono a Tronchetti o ci vendi la Pirelli per intera o niente da fare. E così è nata l’opa. I cinesi, insomma, vogliono il brand Pirelli e la sua tecnologia che gli consentirà di posizionarsi nella parte alta del settore “premium” degli pneumatici per auto avendo già il controllo della metà della produzione mondiale degli pneumatici per camion e bus (il cosiddetto settore track). L’obiettivo è il delisting della società per riquotarla a distanza di quattro anni casomai avendo venduto o “spinoffato” anche qualche pezzo importante come la divisione industrial, quella che produce appunto gli pneumatici per camion e bus, scippando in quel caso agli attuali azionisti altro valore. I cinesi, dunque, si apprestano a fare un’opa a 15 euro per azione dando così un forte guadagno a tutti i vecchi azionisti. Va da sè che Tronchetti resterà alla guida della Pirelli sino al 2021 con autonomia gestionale (a buon intenditor poche parole!!) Con questa operazione si sancisce in via definitiva il fallimento industriale di quel che fu indicato da una stampa compiacente dell’epoca il salotto buono del capitalismo italiano che scompare definitivamente dalla storia del paese visto che l’unica che si è salvata è stata la Fiat grazie ai soldi di Obama ed a Marchionne andando, però, via dall’Italia pur lasciando nel nostro paese importanti stabilimenti. Il dramma è che la fine di quel salotto buono che ha fatto perdere all’Italia la siderurgia, la chimica, l’avionica, la farmaceutica, parte dell’alimentare ed oggi il brand e la tecnologia di Pirelli è avvenuta, e continua ad avvenire insieme alla svendita di grandi aziende pubbliche, nel silenzio assordante dei governi, compreso quello in carica. Mentre i cinesi si comprano forse l’ultima multinazionale italiana con il suo bagaglio tecnologico e di marketing, il governo, con la sua cassa depositi e prestiti entra con il famoso fondo strategico, nelle catene alberghiere (quella di Rocco Forte ieri e domani forse in quella della Una Hotel già di Salvatore Ligresti) o nella produzione e distribuzione di carne bovina o in piccole aziende come la Valvitalia. L’unica attenzione che i cinesi faranno al nostro paese sarà forse quella di farsi finanziare per metà del costo dell’opa (4 mld di euro) dalla nostra Unicredit che purtroppo anch’essa già non è più nostra. La domanda che ci angoscia è una sola visto il compiacimento del sottosegretario allo sviluppo Claudio De Vincenti che sembra non distinguere investimenti esteri da acquisti di tecnologie e ricchezze industriali. La nostra classe dirigente, governo e parlamento, è distratta (che garbo!!) o è complice di questa spoliazione continua del paese ridotto sempre più ad un figurante nel contesto di una globalizzazione sempre più aggressiva? Una domanda che forse ha già una risposta vedendo cosa hanno fatto e fanno Francia e Germania.
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