pubblicato su ” Il Foglio” il 6 febbraio 2013
La drammatica vicenda del Monte dei Paschi di Siena colpisce, giustamente, l’opinione pubblica che ha accumulato verso l’intero sistema bancario un rancore a volte comprensibile ma molte altre volte assolutamente ingiustificabile. Le crescenti difficoltà nell’avere credito spinge famiglie ed imprese semplicisticamente a criminalizzare le banche dimenticando che anch’esse sono aziende che devono far quadrare i conti e, in particolare, tutelare i depositanti, cioè i soldi dei risparmiatori. Se a famiglie e ad imprese, strette dall’affanno di una crisi che non passa, si può giustificare la mancanza di una visione d’assieme, governo e parlamento non hanno alcun alibi dinanzi ad un sistema finanziario nel quale crescono fenomeni come quelli del Monte dei Paschi. Un po’ di storia, però, aiuta a capire un po’ di più. Quando agli inizi degli anno ’90 si cominciò a riflettere di come riordinare il sistema bancario italiano per la quasi totalità in mani pubbliche, si immaginò, in un dibattito principalmente tra Carli, Amato e il sottoscritto, ad una riaggregazione di 3-4 poli bancari di quella che era chiamata la foresta pietrificata del nostro sistema creditizio. Per dare un segnale forte in quella direzione il governo decise di aggregare l’IMI al San Paolo di Torino muovendo, così, un primo passo verso l’obiettivo di creare 3-4 grandi player internazionali nel settore creditizio capaci a loro volta di far da battistrada ad un processo di internazionalizzazione attiva del capitalismo italiano. Le follie del 1992-’93 fecero saltare capacità di guida e decisioni approfondite e si privatizzarono le banche un po’ alla garibaldina senza offendere, naturalmente, Garibaldi. Privatizzare prima di un intelligente lavoro di riaggregazione delle banche nazionali in 3-4 poli creditizi, consentì la discesa in Italia dei francesi di Credit Agricole (Banca Intesa), degli spagnoli del Santander e della BB VV AA (BNL), degli olandesi dell’ABN Ambro (Antonveneta), dei tedeschi in Unicredit.
La Fondazione Montepaschi fu l’unica tra le fondazioni a non scendere sotto il 51% del capitale nella banca di riferimento dopo la nuova normativa sulle fondazioni di talché il Montepaschi rimase l’unica grande banca “pubblica” ancorché non statale. Nel 2002 ci fu un tentativo di fondere, d’intesa con la banca d’Italia, Montepaschi e BNL che rispondeva a quel criterio smarrito per strada e che puntava a far poli creditizi forti prima di privatizzare. A questa fusione si oppose, tra gli altri, Franco Bassanini in nome della cosiddetta “senesità” del Montepaschi ma più ancora nell’interesse della finanza francese e della sua massoneria alla quale da qualche tempo Bassanini aveva aderito. E sempre lo stesso Bassanini fece una guerra senza quartiere contro la scalata Unipol-MPS per la conquista della BNL che doveva essere regalata ai francesi di BNP Paribas da un gruppo di pressione guidato da Amato e dallo stesso Bassanini che intanto nel 2001 era diventato consigliere d’amministrazione dell’ENA francese e poi insignito da Chirac della Legion d’onore per i servizi resi ai cugini d’oltralpe. Per dirla in breve la solitudine del Montepaschi è stata la bussola di Franco Bassanini e di Giuliano Amato che non a caso, poi, plaudirono all’insano acquisto per un prezzo esagerato dell’Antonveneta già in pancia agli spagnoli del Santander. Le responsabilità penali, se vi sono, le cercherà la magistratura ma le altre responsabilità, a cominciare da quelle politiche, al contrario, vanno ricercate dal governo e dal parlamento oltre che dalla libera stampa. Ed allora, per sintesi, dopo la relazione del ministro Grilli alle commissioni finanze di Camera e Senato appare chiaro che:
1) La banca d’Italia si è accorta per tempo attraverso tutta una serie di ispezioni, che c’erano nel Monte dei Paschi quei rischi poi puntualmente esplosi. Delle due l’una: o le ispezioni non furono fatte a regola d’arte o furono sottovalutate fermo restando che già nell’acquisto dell’Antonveneta forse una più forte determinazione della nostra banca centrale sarebbe stata utile;
2) Le tre banche d’affari che curarono l’aumento di capitale del Montepaschi furono la Merrill Linch, la City group e la Goldman Sachs. Quest’ultima, a quell’epoca, aveva in Italia come autorevole consulente il professor Mario Monti che pur non scendendo nel merito, non poteva non conoscere l’operazione;
3) Nell’ottobre del 2008, ad acquisto avvenuto, c’è stata una deposizione ai PM di Milano di un funzionario di banca, tal Antonio Rizzo della Dresner Bank, che affermava esistere all’interno della struttura manageriale del Montepaschi un gruppo di malaffare. Tale deposizione per 5 anni non ha determinato alcuna iniziativa né da parte della magistratura né da parte di alcuna autorità di controllo;
4) Appena un anno dopo e cioè nell’ottobre del 2009, le Camere approvarono il famoso scudo fiscale che consentì il rientro di capitali, leciti e non leciti, con soli 20 voti di scarto registrando l’assenza di 28 deputati dell’opposizione di cui 22 del PD, tra le quali, pura coincidenza naturalmente, quella dell’on. Linda Lanzillotta moglie di Franco Bassanini e direttore del think-tank “Glocus” che ha avuto anch’esso un presidente francese, e 6 dell’UDC di Casini;
5) L’apprezzabile capacità sensitiva e analitica di un’autorevole capitalista italiano come Francesco Gaetano Caltagirone che ha preferito prendere negli ultimi tempi le distanze dal Monte dei Paschi vendendo, con perdite significative, parte delle proprie azioni.
Dinanzi a questo scenario le responsabilità omissive sono pressoché generali e tra queste risaltano quelle dei vari governi oltre che di un parlamento sempre più sterilizzato nella sua attività ispettiva e di controllo. Appare, allora, veramente peregrina la polemica di chi vuole colpevolizzare l’intero PD per aver lasciato nella sua solitudine tentatrice il Monte dei Paschi invece che agevolarne l’ingresso in un grande polo bancario-assicurativo quando il responsabile di tutto questo è stato il trinomio Amato-Bassanini-partito senese forte dei suoi collegamenti anche internazionali. Altrettanto peregrina è quella di colpevolizzare tutte le Fondazioni senza delle quali, è bene dirlo con chiarezza, i nostri istituti di credito sarebbero stati controllati da banche straniere visto che il nostro capitalismo non è stato capace di difendere alcunché in questi anni, dalla Edison alla Parmalat, dall’Avio a tante altre aziende passate sotto il controllo estero senza alcuna reciprocità lasciandoci, così, andare ad una internazionalizzazione passiva della nostra struttura produttiva. Terza ed ultima considerazione, l’accordo Nomura-Montepaschi ancora una volta denuncia come veleno quella innovazione finanziaria fatta di derivati, swap, futures ed altre diavolerie che hanno lasciato crescere quel capitalismo finanziario selvaggio che sta mettendo in crisi l’economia reale dell’occidente e i suoi modelli democratici. E mentre i partiti si rinfacciano di tutto e di più nessuno di essi ha speso una sola parola per invocare una nuova disciplina dei mercati finanziari impegnandosi a mettere sul tavolo del consiglio dei capi di Stato e di governo dell’Europa comunitaria il tema della finanziarizzazione dell’economia e dei suoi devastanti effetti sulle democrazie occidentali.
Più che una commissione d’inchiesta che si sovrapporrebbe all’azione della magistratura sarebbe utile, invece, una commissione d’indagine per capire i punti critici del nostro ordinamento bancario e dei poteri delle autorità di controllo. Forse un’utopia, la nostra, vista la corsa in atto verso un parlamento di neofiti e in molti casi anche di sprovveduti. Politicamente parlando naturalmente.
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