Pubblicato su ” Il foglio” il 24 maggio 2013
Al direttore-La crisi economica italiana in parte, ma solo in parte, frutto della più generale crisi europea ed internazionale, è di una gravità senza precedenti nella storia repubblicana e si sta trascinando, ormai, da troppi anni avvitandosi sempre di più. Come spesso capita nelle crisi economiche “strutturali”, anche quella attuale si accompagna ad una crisi politica che diventa, nei fatti, un moltiplicatore degli effetti negativi. Dopo alcuni mesi di incomprensibile tran-tran e sotto la spinta salvifica del presidente Napolitano, le maggiori forze politiche hanno avuto l’intelligenza di trovare un minimo comune denominatore formando un governo che ha dalla sua la forza della giovinezza e un’esperienza antica nei grandi partiti di massa. Detto questo, però, bisogna subito dire che è folle riprendere il vecchio gioco di “tre palle un soldo” per far cadere un governo che non ha ancora avuto il tempo di dar conto di sé e che, peraltro, non ha alternative in questo parlamento. Altrettanto suicida è l’atteggiamento di quanti rivendicano il proprio marchio di fabbrica su ogni provvedimento che il governo fa com’è accaduto in questi giorni. Un atteggiamento infantile e regressivo che testimonia solo la debolezza identitaria per cui ad ogni “starnuto” positivo scatta la corsa nel dire “è merito nostro”. Un’opinione pubblica così affannata e rabbiosa come quella italiana non apprezza questa rincorsa propagandistica mentre sa discernere quanti si impegnano con lealtà a sostenere un’azione di governo che deve far uscire il paese da una crisi recessiva in cui l’ha gettata il governo Monti e, prima di esso, i precedenti governi di centro-destra e di centro-sinistra, ognuno per la sua parte. Se le forze di governo vogliono competere, lo facciano in positivo proponendo cose praticabili e aiutando il governo a trovare le risorse necessarie. Non sfugge a nessuno, però, che dopo 20 anni di guerra guerreggiata tutto questo sarà possibile se si riscopre il valore di una pacificazione non invocandola solo a parole ma testimoniandola nei fatti. Noi inorridiamo quando sentiamo dire che bisogna dichiarare ineleggibile un leader politico di una qualsiasi forza politica, a maggior ragione quando questa raccoglie milioni e milioni di voti degli italiani così come abbiamo sempre apprezzato nella storia d’Italia l’amnistia proposta nel 1946 da Palmiro Togliatti, ministro della giustizia nel governo de Gasperi, che copriva reati comuni e reati politici sino addirittura al concorso in omicidio. Era l’immediato dopoguerra, l’Italia era sotto le macerie e la pacificazione nazionale era il collante necessario per far ripartire il paese. Non siamo nel dopoguerra ma vi sono macerie sociali altrettanto drammatiche frutto di vent’anni di follie delle quali, pur non essendo tutti uguali, nessuno può chiamarsi fuori da una comune responsabilità. Togliatti promulgò l’amnistia e l’indulto approvati dall’intero governo de Gasperi senza neanche sentire la direzione del proprio partito creando così malumori e fratture. Alla sinistra di oggi verrebbe di chiedere se davvero ritiene di poter battere il quasi ottantenne Silvio Berlusconi solo per via giudiziaria o con modalità da pretura nella giunta per le elezioni. Se così fosse sarebbe la testimonianza atroce di un’impotenza politica di una forza che pure nel passato, e non solo con Togliatti, ha concorso a tenere in piedi la democrazia italiana contro i colpi di maglio delle crisi economiche e del brigatismo rosso. La politica italiana ha bisogno di ritrovare se stessa, le ragioni del suo primato e la forza di una guida autorevole di una società smarrita. La politica non può tremare per un titolo di giornale o per un comizio di un avversario o per un avviso di garanzia. Essa deve tremare, invece, se continua, nel suo complesso, a non saper guidare il paese come da tempo sta dimostrando. Pacificazione nazionale, aggressione del debito pubblico, un immediato piano per rilanciare, ora e subito, l’occupazione giovanile e porre le basi strutturali, a cominciare dal costo del lavoro, per la ripresa di una crescita economica costituiscono un “unicum” direzionale per far uscire famiglie ed imprese da una crisi per alcuni versi simile a quella del ’46 ma per altri ancora più grave perché all’epoca c’era una speranza che oggi non c’è. Forse c’erano anche leaders politici che non si trastullavano né con i sondaggi né con la rete né si lasciavano intimidire da minoranze attive, tragiche o comiche che fossero.
Mi piacerebbe, signor Pomicino, un suo parere, una sua risposta, su quanto vado a dire.
Perchè tutti i commenti ed i tentativi di fornire soluzioni alla grave crisi economica dell’occidente, ne ignorano le profonde radici di mutazione antropologica? Cioè che è la denatalità che produce decrescita e miseria (nonostante si cerchi di compensare con una deleteria spinta consumistica); Che non si può pagare una pensione decente ad un anziano, se non ci sono almeno quattro giovani che lavorano anche per lui. Che tutti i fondamenti dei diritti dei più deboli derivano dal cristianesimo e che, per esempio, aborto, eutanasia e riduzione del valore della famiglia, minano alla base il perchè stesso si debba aver cura dei deboli (cosa antieconomica) e come si possa farlo.
Grazie.