articolo pubblicato il 5 dicembre 2014 su Il Foglio Quotidiano
Con una lunga maratona nell’ultimo weekend la Camera ha approvato la legge di stabilità che un tempo si chiamava legge finanziaria. Diciamo subito che ci intenerisce il tentativo di molti protagonisti di una politica sempre più frastornata di intestarsi questa o quella misura agli occhi dell’opinione pubblica. Intenerisce per il suo infantilismo e preoccupa per l’assenza totale di un giudizio complessivo e argomentato su di una manovra finanziaria sulle cui spalle poggia il futuro del paese. Spiace dirlo ma la nostra valutazione sul complesso della manovra è negativa e a dimostrarlo è lo stesso documento di programmazione finanziaria che lo accompagna. La bontà di ogni iniziativa politica, infatti, la si evince innanzitutto dai risultati che produce. Ebbene dopo questa manovra nel quadriennio 2015-2018 l’economia italiana dovrebbe avere un tasso di crescita di 0,6-1-1,3-1,4 del prodotto interno lordo. Naturalmente a questo striminzito tasso di crescita corrisponde un tasso di disoccupazione che comincerà a scendere di poco solo nel 2016 per restare sempre al di sopra del 10% al 2018. E questo nel migliore dei casi perché i tassi di crescita citati sono gli obiettivi che il governo si pone e che da vent’anni non sono mai stati raggiunti. Ma anche se fossero questa volta raggiunti l’Italia con quei numeri non potrà mai uscire dal tunnel di una bassa crescita, di una grande disoccupazione, di una crescente povertà di massa e conseguentemente non potrà avviare quel risanamento dei conti pubblici gravati da un debito che negli ultimi quattro lustri è cresciuto di oltre 1200 mld di euro nonostante la vendita di aziende pubbliche per oltre 160mld di euro. Sarebbe ingiusto, però, non sottolineare anche alcuni aspetti positivi della legge di stabilità tra cui innanzitutto la riduzione dell’Irap sulle imprese e la decontribuzione triennale per i nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato. E qua e là nel testo ci sono altri aspetti positivi così come ci sono delle sciocchezze incredibili chiedendo scusa per l’uso di questo termine. Ad esempio l’aumento della tassazione sui rendimenti dei fondi pensionistici è nei fatti una sciocchezza concettuale e sullo stesso terreno pratico. Ritenere i rendimenti dei fondi pensioni e delle casse previdenziali utili finanziari come quelli dei tanti fondi di “private equity” è un errore perché quegli utili nessuno se li metterà in tasca ma andranno ad aumentare il montante pensionistico per una previdenza integrativa che è sempre più necessaria onde evitare che tra venti anni ci possa essere un esercito di pensionati poverissimi che non raggiungeranno, parlando di dipendenti, neanche il 50% dell’ultimo salario. Ed è un errore anche sul piano pratico. Con l’aumento della tassazione sui rendimenti dei fondi pensioni lo Stato incasserà 380milioni di euro l’anno che per 4anni fanno appena 1,32 mld di euro sottratti al futuro della previdenza integrativa. Lasciando, al contrario, la tassazione all’11% si potrebbe mettere per 4 anni un vincolo di portafoglio agli investimenti degli stessi fondi pensioni per almeno dieci miliardi l’anno per comprare immobili dello Stato utilizzati dalla pubblica amministrazione con un rendimento del 4-4,5%. In tal modo lo Stato avrebbe avuto a disposizione 40 mld di euro senza incidere sui conti pubblici (l’onere di locazione verrebbe messo sul ricavato della vendita) da utilizzare per investimenti pubblici e per favorire quelli privati, entrambi essenziali per far ripartire l’economia italiana senza far danno ai fondi pensioni che ad oggi hanno 200 mld di euro investiti (molti dei quali a termine) e una alimentazione annua di altri 20 mld di euro. Elementare Watson! Un altro errore marchiano è la questione del TFR che il lavoratore potrebbe chiedere nella busta paga mensile ma sottoponendolo a tassazione “normale” mentre se resta nell’azienda quel salario differito viene tassato con una aliquota del 20%. A prescindere dal fatto che già oggi questa pratica viene esercitata in caso di bisogno di un lavoratore non sarà certo questo gettito a raddrizzare i conti pubblici ma, al contrario, sarà un’altra mina che produrrà effetti negativi sul futuro dei lavoratori nel momento della vita in cui si è più fragili. Due esempi per tutti, dunque, che danno netta la sensazione che manca una visione generale per il futuro del paese e si rincorre con affanno la quadratura di un cerchio sempre più difficile a chiudere. E che questa visione generale manchi lo dimostra il fatto che nessuno mette al centro dell’attenzione la questione fondamentale e cioè come aggredire il debito pubblico recuperando per questa strada risorse importanti necessarie per far ripartire la nostra economia. Ha ragione Renzi quando dice che il debito lo si riduce attivando la crescita ma se questa balla nella migliore delle ipotesi intorno all’1% il debito continuerà sempre più ad aumentare come è accaduto negli ultimi 15 anni. Per crescere servono soldi e per ridurre il debito servono tagli che in fase recessiva peraltro non dovrebbero essere fatti. Per rompere questa morsa schizofrenica c’è una sola strada, una manovra finanziaria straordinaria capace di abbattere significativamente lo stock del debito accumulato invertendo la sua direzione di marcia e recuperando dalla spesa per interessi parte importante di quelle risorse necessarie per fare tutto ciò che tutti dicono di voler fare e cioè ridurre la pressione fiscale su imprese e famiglie, investimenti pubblici su infrastrutture, ricerca e innovazione, insomma modernizzare il paese facendolo crescere in tutti i sensi. Questa manovra, purtroppo, non ha questa ambizione perché dietro di essa non c’è nè una visione generale e men che meno la necessaria esperienza e l’Italia continuerà a impoverirsi e ad indebitarsi.
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