articolo pubblicato su Il Foglio Quotidiano il 1 agosto 2015
L’acquisto della Italcementi del gruppo Pesenti da parte della tedesca Heidelberg ha rilanciato la grande questione che da vent’anni è sul tappeto e che periodicamente dà fuoco alle polveri per qualche giorno e poi tutto va in cavalleria. Ci riferiamo al fatto che le centinaia di imprese con marchi prestigiosi passati in mano straniera negli ultimi 2 decenni hanno “spolpato” l’Italia di tantissime eccellenze. Per ognuna di loro significa perdere lentamente ricerca, design, innovazione e spesso occupati salvo poche eccezioni che si contano sulla mano e che strategiche certo non sono (Luxottica). Ma, cosa ancora più grave, questo processo di acquisizioni di marchi stranieri non sono compensati da una reciprocità tra il nostro capitalismo e il riassetto del capitalismo europeo e internazionale. In settori come siderurgia, chimica, avionica, farmaceutica, alimentari, trasporto su ferro, energia, moda e lusso, telecomunicazioni, gomme la proprietà italiana è quasi del tutto scomparsa senza alcuna reciprocità capace di mantenere quell’equilibrio tra paesi e paesi che ieri era garantito dagli eserciti alle frontiere, oggi, grazie a Dio, da strumenti meno sanguinari ma altrettanto devastanti per il nostro futuro, quali la finanza e l’industria a tecnologia avanzata. I buontemponi confondono acquisizioni straniere con investimenti che sono ben altra cosa anche perchè, come si è visto con la vicenda Indesit-Whirpool, spesso la tentazione degli acquirenti è di disinvestire salvo, poi, tornare sui propri passi dopo risoluti interventi governativi. Tutto quanto accade su questo terreno (e nessuno si è ancora accorto che l’intero sistema bancario sta completando il passaggio di mano) viene etichettato come gli effetti di un libero mercato nell’avanzato processo di globalizzazione. I suoi agguerriti sostenitori sostengono che lo Stato dovrebbe svolgere solo il compito di regolamentare il tutto testimoniando così che i fondamentalismi ci sono, eccome, anche in economia e non sempre ispirati da sentimenti religiosi. Non c’è dubbio che l’ingresso di un fondo pubblico in attività come quelle alberghiere o come tante altre che ha fatto il fondo strategico di Tamagnini porta argomenti fulminanti per etichettare questi interventi pubblici come fatti clientelari o peggio ancora. Si spera che con i nuovi arrivi di Costamagna e Gallia la musica cambi. Altra cosa, però, sono quegli asset che noi definiamo strategici e che i grandi economisti non riescono a percepire come tali solo perchè vincolati alle teorie economiche e non agli aspetti politici. E siccome per noi il termine “politica” non è una cattiva parola abbiamo l’onere di spiegarlo nel modo più semplice. Come abbiamo prima detto nella stagione che viviamo la forza e l’autorevolezza di un paese è data da tre cose fondamentali: la ricerca e l’innovazione, la finanza, il capitale umano. Questi tre aspetti, fondamentali per l’economia di un paese, costituiscono anche una fonte primaria del potere che negli ultimi 50 anni si è trasferita in parte notevole dalle istituzioni democratiche all’economia ed alla finanza ed al loro intreccio con la grande informazione. Se tornasse in vita Tocqueville dovrebbe rivedere il suo saggio sulla libertà e sulla divisione dei poteri tanto grande è stato il mutamento delle fonti del potere. La politica è fatta di valori, di progettualità, di ordinamenti democratici, ma anche di potere il cui esercizio deve sempre avere, naturalmente, un limite dato, come si suol dire, dai pesi e dai contrappesi. Se dunque il potere negli ultimi 20 anni si è pericolosamente spostato dalla politica (governo e parlamento) alla economia ed alla finanza è giusto che lo Stato democratico possa anche essere un azionista di società strategiche (energia, finanza, telecomunicazioni, trasporti) come accade in tanti paesi europei a cominciare dalla Francia e dalle Germania. Non a caso mentre lo Stato italiano ne è uscito, Francia e Germania tengono ancora saldamente in mano pubblica alcuni settori strategici (finanza, energia, telecomunicazioni). Continuare a fare riferimento ai sistemi anglosassoni è fuorviante perchè Gran Bretagna ed USA hanno sistemi politici ed economici diversi e alternativi a quelli franco-tedeschi e non è assolutamente detto che l’uno sia migliore dell’altro. Inoltre nei citati paesi liberisti (Gran Bretagna e USA) lo Stato ha rapidamente nazionalizzato all’occorrenza banche, assicurazioni e industrie in settori strategici quando c’era il rischio di un loro fallimento confermando ancora una volta che la teoria è fondamentale ma gli equilibri di potere e gli interessi generali in una democrazia sono cose profondamente diverse. Non a caso l’Italia di oggi è molto, ma molto indebolita sul piano internazionale.
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