articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 28 agosto 2016
Il dibattito sulla crisi meridionale tra Ernesto Galli della Loggia e Giuseppe Galasso mette a nudo due verità di fondo che hanno caratterizzato la vita del paese in questi ultimi 25 anni. È vero che l’Italia tutta sembra aver incorporato i mali endemici del Mezzogiorno ma è altrettanto vera la lucida analisi di Galasso che evidenzia l’assenza del mezzogiorno nelle politiche nazionali degli ultimi cinque lustri. E ci spieghiamo. Quando un paese dal 1995 è la cenerentola d’Europa per tasso di crescita e sul terreno della produttività del lavoro, inevitabilmente arretra, prima economicamente e poi lentamente sul terreno sociale e della vivibilità nel suo complesso. I tanto criticati anni ’80 avevano registrato una crescita nel decennio del 27% reale in un periodo in cui il paese dovette sconfiggere il terrorismo brigatista nella sua opzione meridionale con l’uccisione di due consiglieri regionali dc (Amato e Delcogliano) e la gambizzazione di due consiglieri comunali (Siola e Giovine) e il rapimento Cirillo. Che cosa è accaduto nel paese a partire dal 1994 perché si realizzasse quell’arretramento di cui parla Galli della Loggia? Sul piano politico la scomparsa delle grandi culture con i relativi partiti (dove sono i comunisti, i socialisti, i liberali ed i democristiani?) che si sono rapidamente trasformati in partiti personali nei quali, con la eliminazione della democrazia interna e degli organi collegiali, la selezione della classe dirigente è avvenuta con la cooptazione e con la cortigianeria producendo inadeguatezza e mediocrità. Sul piano della finanza pubblica dal ’94 in poi c’è stata una riduzione degli investimenti pubblici pari annualmente a circa due punti di pil (circa 30 mld di €) e cioè in 22 anni oltre 450 mld € per cui il paese non è stato manutenuto ne’ modernizzato ne’ infrastrutturato mentre il debito è aumentato del 170% dal 1992 ad oggi con una crescita della povertà e dei milionari grazie anche ad un capitalismo finanziario che affanna l’economia reale. Terzo avvenimento il disarmo economico e finanziario dello Stato con la vendita di quasi tutte le eccellenze aziendali pubbliche in netto contrasto con quanto è avvenuto in Francia ed in Germania e in alcuni casi anche in Gran Bretagna ed in USA. Questi tre complessi avvenimenti sono accaduti in Italia alimentati da un pensiero unico con l’eccezione di voci sporadiche tra le quali non ricordo quella del mio amico Galli della Loggia. In questo quadro ha ragione da vendere Galasso quando parla di fatto di azioni recessive delle politiche nazionali nei riguardi del Sud. Quando c’è una crisi nazionale come quella descritta gli effetti maggiori infatti colpiscono le aree più deboli. Ed ecco allora che gli investimenti pubblici sono caduti del 38% in più nel Sud rispetto al centro nord e gli occupati al 31/12/2015 erano nel Mezzogiorno 5milioni e850mila mentre al 31/12/1991 erano di 6milioni e700mila (dati Svimez). Spesso gli opinionisti sfuggono all’obbligo della proposta mentre Galasso, indiscutibile uomo di cultura, si è misurato nel tempo con il difficile compito di governo concorrendo con chi scrive e con altri a grandi opere infrastrutturali a Napoli e nel sud (per Napoli valga il ricordo del centro direzionale, del palazzo di giustizia, della metropolitana) e ad insediamenti industriali come la Fiat a Melfi, la Bull ad Avellino e la Texas a Caserta per non parlare del porto di Gioia Tauro acquistato poi da un consorzio internazionale con presenze olandesi, belghe ed italiane e del progetto di Neonapoli travolto poi da quel fenomeno del 1992 che gli storici prima o poi dovranno spiegare fino in fondo. Di qui, dunque, nasce l’ottimismo di Galasso che, nei fatti, auspica il ritorno della grande politica abbandonando il personalismo politico e la irresistibile tendenza al comizio e al litigio permanente di cui da’ continua testimonianza larga parte della politica meridionale e nazionale. Risalire dunque si può perché non c’è alcun destino cinico e baro che ci costringe al degrado ma solo la incapacità di battere il pressappochismo culturale e politico che ci opprime da venti anni a questa parte alimentato e sostenuto quasi sempre da interessi economici e finanziari molto spesso inconfessabili diventati in questi mesi anche “costituzionalisti” in difesa di una riforma indifendibile che aggraverebbe tutto ciò che abbiamo sinora descritto.
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