Il disastro di non avere più culture politiche e il bluff del personalismo

articolo pubblicato su Il Foglio Quotidiano il 6 novembre 2019

Il voto dell’Umbria ha spinto molti politici affetti da uno strutturale pressappochismo a dare valutazioni spesso superficiali sugli effetti che quel voto può determinare. Guardiamo ai fatti. Il primo dato è la riduzione del 50% dei voti dei 5 stelle (dal 14% delle europee al 7% di oggi) che testimonia il declino inarrestabile di un movimento dai profili alcune volte inquietanti ed altre volte comici ma sempre inadeguati alle incombenze governative. Una buona notizia dunque, anche perché nel convegno di Napoli, in un impeto di onirica sincerità Beppe Grillo con il volto di Joker ha spiegato che la democrazia che lui insegue è quella del caos, una sorta di big-bang politico dal quale possa nascere un nuovo mondo. La maschera di Joker avrà fatto pensare a tutti ad una performance comica mentre al contrario quella rappresentata era la struttura del pensiero di Grillo e non a caso i comportamenti della sua creatura politica è tutta improntata ad un disordine istituzionale ed economico. L’Italia ha sempre avuto movimenti politici di questo tipo che son durati alcuni anni e sempre miseramente falliti ed assorbiti dai partiti più strutturati sul terreno organizzativo e del pensiero. Il ricordo va all’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini che pure ebbe alla sua prima uscita nelle elezioni della costituente nel 1946 diverse decine di parlamentari. Quel movimento però fu rapidamente assorbito perché c’erano i grandi partiti di massa forniti non solo di una organizzazione importante ma anche di culture precise e diverse e tutte in grado di offrire quel senso di appartenenza che resta sempre la chiave per l’adesione dei militanti e per il consenso degli elettori. E questo è il punto cruciale delle debolezze partitiche che le elezioni in Umbria hanno ancora una volta confermato. Mentre l’attivismo frenetico di Salvini nei paesi e nelle piazze corroborato da una cultura visibile anche se molte volte inquietante dà alla Lega una identità visibile e comprensibile (nazionalismo, sovranismo, patria, famiglia e religiosità strumentale) nel centro sinistra, invece, i partiti ed i movimenti camminano nel vago senza una bussola e senza una visione. Dei cinque stelle abbiamo già parlato mentre quasi tutti danno da tempo un giudizio pesante sul PD concentrandosi sulla figura del segretario politico secondo la logica perversa della personalizzazione dei partiti. Alla domanda “caro Zingaretti ma voi chi siete” il segretario del PD risponderebbe “siamo la sinistra democratica e costituzionale”. Dire la parola sinistra senza qualificarla è dire sostanzialmente nulla. La sinistra può essere comunista, socialista, cattolica, liberale, ecologica, radicale ma non può essere un qualcosa di tutto un po’ racchiusa nell’altro termine altrettanto generico di democratico, parola che negli Stati Uniti ha dietro di sè due secoli di battaglie mentre in Europa resta un termine vago e banalmente comune, fatta eccezione, naturalmente, per la destra estrema. La follia di quel lontano 2007 in cui Rutelli e Fassino misero insieme le culture socialiste, democristiane e post comuniste fondando il partito democratico, a distanza di oltre un decennio dimostra tutta la propria fragilità culturale e politica. Come sempre accade nella storia della umanità, mettendo insieme due culture diverse ancorché compatibili tra loro non ne esce una terza nuova mentre le due culture originali si diluiscono fino a scomparire del tutto. Ecco perché se chiedete a tantissimi autorevoli amici del PD voi chi siete, tutti vi risponderanno con un concetto piuttosto che con una parola: socialista, democristiano, verde, repubblicano, liberale o altro, tutte parole che hanno un senso preciso in Europa e nel suo parlamento. È la drammatica scomparsa di una propria identità che possa alimentare una visione ed una militanza. Ecco perché noi, pur sostenendo da dieci anni la necessità di sciogliere quella fusione a freddo tra i DS e la margherita, restiamo delusi della nascita del partito di Renzi che ha scelto un nome, forse su consiglio di un ottimo uomo di spettacolo, che non dice quasi nulla di politico al paese. Matteo Renzi da tempo sta sciupando un talento indiscusso perché forse ritiene che il proprio nome sia ad un tempo una cultura ed una identità. Ma così non è e quando questo dovesse avvenire una volta che tramonta il personaggio che alimenta la vitalità di un partito si estingue anche il partito nel suo complesso. È stato così con Berlusconi che ha molto resistito pur avendo costruito un partito personale perché aveva dalla sua grandi disponibilità economiche oltre a giornali e televisioni e fu così con Bossi che aveva portato la Lega a poco più del 4%. I leader del passato, al contrario, resistevano per decenni ed erano tali anche fuori dagli impegni di governo perché la loro autorevolezza non era legata alla funzione governativa quanto alla cultura politica che avevano alle spalle ed alla loro visione. Anche nel presente in molte democrazie europee i leader resistono per diversi decenni perché hanno alle spalle una cultura ed una identità mentre da noi da oltre 25 anni una volta fuori dal governo i leader vedono appannarsi notorietà ed autorevolezza. Dire come ha spiegato lo stesso Matteo Renzi che Italia viva (!!?!) è un partito democratico e liberale è dire niente e male perché come abbiamo già detto la parola democratico in un partito fortemente personalizzato è una contraddizione in termini mentre il termine liberale non sembra più una cultura di riferimento ma solo una parola passe-partout. Noi auspichiamo che Renzi nel prosieguo ci smentisca nell’interesse del paese che ha bisogno come l’aria di recuperare un partito centrista e di ispirazione cattolica come accade in Germania, in Austria, nella Spagna e in tantissimi altri paesi. Per intanto oggi l’intero centro sinistra per motivi diversi come abbiamo succintamente dimostrato soffre di questa comune mancanza di cultura e di identità mentre cominciano a muoversi lentamente circoli di pensiero cattolico-democratici e socialisti, liberali e verdi nel tentativo di rianimare una politica che non c’è più .Questa mancanza di cultura e di identità si riversa inevitabilmente anche nel governo intorno al quale i partiti si affastellano come piccoli comitati elettorali per mettere una bandierina in questa o in quella legge pensando così di guadagnare consenso a buon mercato. La legge di bilancio, poi, è l’occasione migliore per porre le bandierine dimostrando ancora una volta la confusione anche metodologica in cui è caduta la Repubblica. Ma quando mai le leggi di bilancio nel corso della sua redazione vedevano il coinvolgimento dei responsabili economici dei partiti? Mai! I ministri finanziari si interfacciavano con i ministri di spesa per mettere a punto la legge di bilancio ed i suoi allegati e il giorno prima del consiglio dei ministri illustravano ai segretari di partito le linee di fondo della politica economica nella legge di bilancio per l’anno successivo. Il giorno dopo il consiglio dei ministri l’approvava (ma che significa oggi la comica frase “salvo intese” se non una drammatica confusione di ruoli e di regole?) e al termine i ministri finanziari la illustravano alla stampa e subito dopo la parola passava al parlamento che esercitava la sua sovranità nel quale la maggioranza aveva un ruolo di guida con una attenzione anche a quella parte di paese e a quegli interessi che l’opposizione rappresentava. Direbbe l’indimenticabile Califano, guardando all’oggi, il resto è noia e noi umilmente aggiungiamo che è anche pericoloso per il paese nonostante tante singole autorevoli presenze nel governo e nel parlamento della repubblica.  

paolocirinopomicino@gmail.com 

 

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