L’involuzione culturale del PD- Gli ex comunisti autorottamati

Pubblicato su “Il Tempo” il 29 giugno 2012

Forse per capire sino in fondo la crisi in cui versa l’Italia è utile un rapido viaggio tra i partiti e i gruppi parlamentari che occupano la scena politica e le aule di Palazzo Madama e di Montecitorio. Ed è saggio partire proprio dal partito democratico che, stante ai sondaggi, dovrebbe essere il primo partito della prossima legislatura con una percentuale del 26-28% dei consensi.  Già questo dato ci lascia un po’ sconcertati. Dopo 20 anni ancora una  volta l’Italia non ha un partito che superi abbondantemente il 30% come avviene in tutti i  paesi politicamente stabili. La frantumazione del panorama politico, insomma, è l’elemento che ha caratterizzato l’intera seconda repubblica. Lo stesso tentativo attuato alcuni anni fa sia dal Pd che dal Pdl, e cioè di mettere nello stesso calderone di tutto e di più, ha resistito solo per un brevissimo tempo. Il Pdl dopo aver visto confluire Alleanza nazionale ha perso Fini e parte della sua squadra e il Pd non solo ha perso uno dei suoi fondatori, Rutelli, ma anche molti deputati del livello di Carra, Lusetti, Ria, Calearo e tanti altri ancora. D’altro canto era tutto prevedibile come scrivemmo all’epoca della nascita del partito. Il Pd è l’erede più forte dei partiti della prima repubblica, di una stagione, cioè, in cui i partiti avevano una cultura politica di riferimento, una selezione della classe dirigente non cortigiana, una militanza e un senso di appartenenza diffusi, tutte caratteristiche che ne facevano partiti veri, radicati nel territorio e negli ambienti culturali e di lavoro. Dopo il crollo del comunismo internazionale  e dopo la scissione nel 1991 di Rifondazione comunista, la naturale evoluzione del grosso del vecchio Pci doveva essere nella direzione socialista. D’altro canto nessuno dimentica che furono proprio D’Alema e Veltroni a chiedere nel 1990 a Bettino Craxi il via libera per l’iscrizione del Pci al Partito socialista europeo. Lo stesso Achille Occhetto racconta che quando cadde il muro di Berlino lui era a colloquio con il segretario del partito socialista europeo per costruire le basi di una sua confluenza nel PSE. Il perché questa evoluzione, consolidatasi in Europa,  si è fermata in Italia è ancora in larga parte da capire. Se è comprensibile, infatti, la gradualità di una evoluzione politica così forte e così traumatica dopo 70 anni di scontri tra il vecchio Pci e il Psi italiani, diventa incomprensibile se, dopo 20 anni di appartenenza al partito socialista europeo, gli eredi del Pci in Italia sono ancora e solo “democratici”, un termine che non significa nulla né nella storia politica italiana né in quella europea. Tutto questo e’ stato, e continua ad essere, il grande errore della sinistra italiana che non a caso non riesce ad essere più non solo un grande partito di massa ma nemmeno un partito i cui iscritti e i cui dirigenti, come dice giustamente Massimo Cacciari, abbiano  il potere di decidere attraverso i propri organi direzionali  il candidato premier. Insomma contano come il due di coppe. Il genericismo populista introdotto in dosi massicce dall’avvento di Silvio Berlusconi ha, infatti, contagiato anche la storia di un grande partito come il vecchio Pci che ha inventato le primarie per decidere ciò che la sua direzione e il suo consiglio nazionale avrebbero  il dovere di decidere. Scimmiottare gli americani o i francesi che hanno storie diverse e sistemi politici presidenziali è il frutto della lenta e letale corrosione della struttura di un partito. E da cosa nasce cosa. E così nello statuto è comparso un divieto a fare più di tre legislature come se la politica non fosse una miscela di talento e di professionalità dei quali si può fare tranquillamente a meno a data certa e che il rinnovamento sia possibile farlo solo se si mandano a casa, per statuto, i leader di partito. E a rimorchio di queste sciocchezze è nato il gruppo dei rottamatori, anch’essi figli di quell’utopia della democrazia diretta dentro e fuori i partiti che ha contagiato l’intero sistema politico. Ma quel che più colpisce è che il capo dei rottamatori, Matteo Renzi, è un democristiano di formazione e di passione e poco o nulla ha a che fare con la storia, le convinzioni e le prassi dei Bersani, dei D’Alema, dei Veltroni e di tutto il gruppo dirigente nato e cresciuto nel vecchio Pci. Il genericismo culturale espone sempre il fianco alla tentazione delle finte modernità, dal giovanilismo acuto al liderismo spinto per finire alla virtualità mediatica nella comunicazione che diventa essa stessa sostanza politica. Tutti  modernismi che hanno ridotto il Parlamento ad un luogo dove si aggirano, per dirla con Ibsen, “pallidi spettri all’imbrunir di un giorno”. E il Paese declina.

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