L’orrore dismissione. I conti delle privatizzazioni degli anni 90 furono pessimi e il debito salì pure. Oggi si rischia lo stesso?

Pubblicato su “IL FOGLIO” il 12/09/2013

L’annuncio fatto a mezza bocca dal governo è di quelli che fanno venire i brividi a quanti conservano ancora il senso dell’interesse nazionale. Pochi giorni fa, infatti, Letta e Saccomanni hanno dichiarato che la nuova legge di stabilità sarebbe stata accompagnata da un largo processo di dismissioni anche di aziende pubbliche per ridurre lo stock del debito pubblico. Tanto per capirci, rischiamo di ritrovarci dinanzi ad una nuova stagione di spoliazione del paese in nome di una bugia grande come una casa. E ci spieghiamo. Già negli anni 90 la motivazione della riduzione del debito pubblico indusse un massiccio processo di vendite di aziende pubbliche. Fu messo sul mercato l’intero sistema del credito e scese in massa il capitalismo europeo. Non appena il governo dell’epoca attivò quelle sciagurate politiche arrivarono in Italia i grandi gruppi bancari internazionali. I francesi del Credit Agricole e gli spagnoli del Santander in Banca Intesa, gli spagnoli BBVA nella Banca Nazionale del Lavoro regalata poi ai francesi, i tedeschi di Allianz e della Deutsche Bank in Unicredit e poi i libici, gli olandesi della ABN AMRO Bank in Antonveneta. Questa calata del capitalismo europeo nel nostro sistema del credito sarebbe stata una cosa positiva ed interessante se ci fosse stata una reciprocità del nostro capitalismo, anche finanziario, verso i sistemi creditizi degli altri grandi paesi europei. Cosi non fu (unica piccola eccezione Unicredit). Se nel corso dell’ultimo decennio non fossero arrivate le tante vituperate fondazioni, le grandi banche italiane avrebbero fatto la fine della banca nazionale del lavoro data ai francesi senza che nessuno ne abbia mai spiegato le ragioni. Un paese senza un proprio sistema nazionale del credito è come un uomo senza un polmone, ogni cosa che fa gli procura un affanno grave e spesso senza speranza. Il sistema del credito, però, non fu l’unico comparto saccheggiato in quegli anni. Quello delle Telecomunicazioni fu un disastro di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze. La Stet Telecom, società con grandi tecnologie, in particolare nella telefonia mobile nella quale avevamo un primato internazionale da fare invidia, fu privatizzata mettendola nelle mani innanzitutto della FIAT con il famoso nocciolo duro dimostratosi, poi, di una friabilità assoluta. Poi passò nelle mani dei “capitani coraggiosi di Brescia” e successivamente in quelle di Pirelli per finire la sua folle corsa nelle braccia della società Telco a maggioranza relativa degli spagnoli di Telefonica, il vero socio industriale della compagine che vede presente anche la finanza italiana con Intesa e Generali. Per dirla in breve dopo oltre 15 anni ci ritroviamo una Telecom piena di debiti che all’epoca non aveva (quasi 30 miliardi di euro), deteriorata tecnologicamente e incapace di fare investimenti senza l’arrivo di un nuovo socio forte. Nel contempo il mercato delle telecomunicazioni italiano è stato invaso da Vodafone e da Wind, la prima delle quali nata dalle ceneri della Olivetti-Omnitel che una volta ricevuta la seconda licenza per la telefonia mobile dalle mani di Ciampi in pochi anni vendette il tutto ai tedeschi della Mannesmann che venne acquistata per l’appunto dalla Vodafone. In questo tourbillon il capitalismo privato ha recuperato risorse e plusvalenze da una società florida degradandola tecnologicamente e indebitandola e, come se non bastasse, si concretizzò il più grande scandalo del dopoguerra, quello della Seat Pagine Gialle venduta dalla Telecom pubblica e ricomprata dalla Telecom privatizzata, ma con il Tesoro ancora azionista di minoranza, facendo fare ad un gruppo di soggetti finanziari in parte ignoto una plusvalenza in 30 mesi di ben 16 mila miliardi di vecchie lire. Ma l’opera di spoliazione del paese continuò in tanti altri settori. La Montedison passò ai francesi di Electricité de France diventando così il secondo produttore di energia nel nostro paese mentre i fondi americani prendevano la maggioranza nell’Eni la cui italianità viene difesa oggi con una golden Share e più ancora con un 30 % in mano pubblica. E così fu per la Finmeccanica altro grande player internazionale. La carrellata potrebbe continuare ( alimentare, farmaceutica e ultima in ordine di tempo la società Avio, un gioiello di tecnologia avionica ) e troveremmo sempre grandi plusvalenze private nei passaggi di mano e deterioramento del patrimonio tecnologico del paese. In Francia e in Germania accadeva l’esatto contrario. Qualcuno ignaro dei fatti potrebbe dire abbiamo, però, risolto il problema del debito. Illuso. Due soli numeri. Mentre avvenivano le vendite descritte per oltre 150 miliardi di euro il nostro debito pubblico è aumentato di oltre 1200 miliardi di euro passando dagli 839 miliardi del ‘92 agli oltre 2 mila miliardi attuali. Un disastro economico, sociale e morale nascosto sotto il manto della lotta al debito pubblico che continua imperterrito ad aumentare con la guida della nostra economia da vent’anni messa nelle mani di autorevoli tecnici. Da qualche settimana risentiamo con orrore lo stesso ritornello che sentimmo nel lontano 1994, quello della lotta al debito pubblico con la vendita di aziende pubbliche. Un ritornello che ha trasformato in 20 anni l’Italia in una colonia di rango del capitalismo europeo e internazionale e che sta da qualche anno, alla canna del gas sul piano finanziario, economico e occupazionale.

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