Consigli per privatizzare senza svendere i campioni di stato

Pubblicato su ” Il Foglio” il 14 novembre 2013
Il dibattito sulle privatizzazioni, come spesso capita alla vigilia della legge di stabilità, è tornato ad essere un tema controverso con tutto il suo carico ideologico da una parte e dall’altra. Privatizzare può essere utile o dannoso a seconda di ciò che si privatizza, di come si privatizza e a che scopo si privatizza. Nel 1991 furono rimesse sul mercato grandi aziende alimentari collocate all’epoca dentro la SME del gruppo IRI che le aveva risanate dopo il fallimento di alcuni privati. Ci riferiamo principalmente ai prodotti ed alle società dei gruppi Motta ed Alemagna che furono venduti a soggetti privati italiani e stranieri ( Barilla, Ferrero, Parke-Davis). L’accusa che apprendisti stregoni facevano ai governi dell’epoca era che lo Stato faceva addirittura panettoni dimenticando che Motta ed Alemagna erano nomi di famiglie le cui aziende furono salvate dall’IRI. Dopo il 1994 il tema delle privatizzazioni fu ritenuto uno strumento per risanare i conti pubblici. Niente di più falso! In quegli anni furono svendute banche e grandi aziende a tecnologia avanzata come la Stet-Telecom e la maggioranza di Eni e di Finmeccanica per complessivi 150 miliardi di euro (qualcuno parla anche di 160 miliardi). Ebbene dal 1994 ad oggi nonostante i 150 miliardi di euro arrivati dalla vendita di aziende pubbliche e i 4 punti in più della pressione fiscale, il debito pubblico è aumentato di 1200 mld di euro (al 1991 era di 839 mld di euro). Dispiace che illustri economisti come Giavazzi ed Alesina dimentichino questi dati e dimentichino altresì che se nel periodo ‘96-’99 il deficit si ridusse di 6 punti, ben 5,3 punti furono dovuti alla contrazione della spesa per interessi legato al calo internazionale dei tassi. La vendita delle aziende pubbliche non sortì, dunque, alcun effetto nè sul debito e nè sul deficit e impoverì tecnologicamente il paese (vedi Telecom) sostituendo, altresì lo Stato con le fondazioni nel sistema bancario. Senza di esse, peraltro, il nostro sistema bancario sarebbe stato preda facile di francesi, anglo-olandesi e finanche di spagnoli come già avevano cominciato a fare. Sottolineati, dunque, con la matita blu questi errori grossolani sulle ragioni che spinsero a privatizzare grandi aziende pubbliche, vorremmo chiedere a quanti ne sostengono la utilità con furore quasi ideologico, se considerano statalisti paesi come Francia e Germania che hanno mantenuto in mani pubbliche larga parte del sistema creditizio e di aziende a tecnologie avanzate. Ma andiamo oltre. La nostra struttura produttiva è per il 95% fatta di piccole, a volte piccolissime, e medie aziende che non hanno capacità finanziaria per investimenti a redditività differita come richiedono ricerca e innovazione ad ampio raggio. Tuttalpiù riescono ad innovare nell’ambito del proprio processo produttivo e nella gamma di alcuni propri prodotti. Per dirla ancora più chiaramente, senza le partecipazioni statali l’Italia non sarebbe entrata nelle telecomunicazioni, nell’avionica, nello spazio, nella energia, nell’elicotteristica, nella ricerca bio medica, nella chimica, in tutti i settori, cioè, a tecnologia avanzata che hanno richiesto ingenti capitali la cui redditività era appunto di medio-lungo periodo. Senza quel ruolo processi innovativi utili per tutto l’universo mondo delle imprese non sarebbero avvenuti e l’Italia non sarebbe diventato quel grande paese industrializzato che era sino a qualche anno fa. Con l’arrivo dei privati l’Italia è uscita o sta uscendo da alcuni settori (vedi chimica, farmaceutica e telecomunicazioni). Ma c’è di più. Alcune grandi società pubbliche come l’Eni e la Finmeccanica hanno anche un valore strategico nella politica estera del paese e senza delle quali l’Italia sarebbe stata, come rischia di essere, solo un’area di consumatori e di produttori per conto terzi. Il nostro sistema economico, dunque, ha bisogno di grandi aziende che investono in ricerca e innovazione in maniera importante e che, però, pur con alcune eccezioni in settori spesso a contenuto tecnologico modesto, non rientrano nella vocazione della nostra struttura imprenditoriale. Valga per tutti i disastri della Telecom e della Avio per le quali si sono cimentati il meglio della imprenditoria italiana o, forse, la più nota, dagli Agnelli a Tronchetti Provera passando per Colaninno e soci. Detto questo, però, è giusto privatizzare tutto ciò che non ha valore strategico per il paese e per tutto ciò che la nostra imprenditoria ha vocazione e capacità di gestione (vedi ad esempio le tante municipalizzate) ma si lasci da parte la necessità di risanare la finanza pubblica che spesso è stata, al contrario, appesantita proprio perchè ha venduto pacchetti di azioni Eni o Enel ad un prezzo inferiore a quanto avrebbe incassato come dividendi. Piuttosto non è giunta l’ora che la Cassa Depositi e Prestiti faccia uno spin-off di tutte le partecipazioni industriali che ha in pancia collocandole in un’unica holding affidata ad autorevoli manager industriali? Pensiamoci nell’interesse di questo bistrattato paese.

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