Pubblicato su ” Il Foglio” il 09 -01-2014
Al direttore-Quel “Fassina chi?” di renziana fattura ha tolto d’improvviso, e forse senza neanche volerlo, il coperchio alla pentola del PD mostrando a tutta l’opinione pubblica cosa bolle nell’animo profondo di un partito che a distanza di anni non sa ancora esattamente cosa è. Le dimissioni di Fassina dal governo non sono una reazione incontrollata ad un insulto giovanilistico. Tutt’altro. Fassina ha posto un problema che a noi è apparso chiaro sin da quando è comparso all’orizzonte del PD quel giovane spavaldo cresciuto nel giusto caldo del cattolicesimo politico che in quelle terre è figlio della prassi e dell’insegnamento di Don Mazzolari e di La Pira. Abbandonata, grazie a Dio, la vecchia cultura comunista, i suoi eredi hanno avuto per anni il fianco scoperto privi com’erano di una nuova identità che tardava ad arrivare. La ricerca spasmodica di una terza via che non c’era, si è conclusa con l’adozione da parte dei vecchi DS di un termine, quello “democratico”, che se è ricco di storia e di cultura negli Stati Uniti è inusuale e privo di senso nella cultura politica europea dove l’unico precedente storico lo troviamo nella fu “repubblica democratica tedesca”, quella recintata dal muro di Berlino, tanto per intenderci. Per dare un segno di ulteriore modernità i DS si fusero con una parte della sinistra democristiana che priva di Moro, Marcora e De Mita, si è lentamente addormentata nel corso degli anni. L’unica area di vivacità culturale della sinistra democristiana rimaneva quella toscana con i Lapo Pistelli e i Letta, che respiravano ancora la spiritualità di Don Mazzolari e di La Pira e assorbivano le visioni di una economia moderna nata e cresciuta nell’esperienza del Mulino dove il ricordo di Andreatta è rimasto sempre vivo perché alimentato dai suoi migliori allievi a cominciare da Romano Prodi. È in quell’area territoriale che si è sviluppato il percorso di Matteo Renzi il quale, sin dall’inizio, ha visto un solo avversario da battere, la vecchia struttura politica del partito comunista. E come sempre capita, la migliore arma per battere un “corpo d’armata” è separare i capi dal grosso del loro esercito che, come l’intendenza napoleonica, avrebbe seguito quel cattolico spavaldo che lasciava presagire finalmente una vittoria del partito a tutto campo. E il potere ha un grande appeal. E così la marcia trionfante di Renzi sta letteralmente schiacciando e stritolando nel partito quel filone culturale socialista che i capi del vecchio PCI non vollero cavalcare in odio a Craxi. Possiamo sbagliare, ma c’è qualcuno che nella segreteria di Renzi viene da una cultura socialista di stampo europeo? Crediamo che non vi sia traccia di questa cultura in quel gruppo di giovani dirigenti e tutto ciò, come scriviamo da quando è nato il partito democratico, porterà inevitabilmente a crepe sempre più profonde nel partito. Il “Fassina chi”? e la reazione che ne è seguita sono solo la spia di ciò che dovrà accadere. Ma c’è di più. La reazione di Fassina, contrariamente a quanto si crede, non è una reazione a caldo di chi prende, incavolato, cappello e va via. Fassina ha messo in evidenza non solo lo scontro nel partito per le ragioni profonde prima descritte ma anche il rapporto tra Renzi e la sua squadra con il governo Letta. Un governo ritenuto solo “amico”, rispolverando le antiche ma puntuali definizioni democristiane, e non un governo nel quale la nuova segreteria si riconosce appieno. Per farlo, è questo l’intendimento di Fassina, c’è bisogno che Renzi indichi alcuni ministri ed in particolare quelli che sono il cuore dell’attuale esecutivo a fronte di una crisi economica e sociale senza precedenti, e cioè l’economia, il lavoro e lo sviluppo economico. Noi crediamo che questo sia il messaggio che Fassina con le sue dimissioni abbia voluto mandare al nuovo segretario politico del partito. Renzi, allora,dovrà comprendere sino in fondo come mantenere un partito unito creando un comune sentire di fondo e nel contempo dare fiato e respiro ad un governo che, piaccia o no, è un governo guidato da un altro autorevole dirigente del suo partito e, per giunta, espressione dello stesso cattolicesimo politico. Dinanzi a queste difficoltà Renzi potrebbe scegliere la scorciatoia di elezioni anticipate. Scorciatoia impervia perché Napolitano, giusto il suo impegno, potrebbe dimettersi lasciando al suo successore l’onere dell’ennesimo scioglimento delle Camere e i gruppi parlamentari, gran parte dei quali verrebbero sacrificati al nuovo che avanza, rischierebbero di spaccarsi dinanzi a questa scelta facendo precipitare il partito nel caos. Saggezza vorrebbe che nel governo entrassero con ruoli significativi uomini del segretario perché è rovinoso, come la storia ci insegna, fare la guerra contemporaneamente su due fronti. Naturalmente si sprecherebbero le battute sul riemergere di pratiche da prima repubblica ma chi le dovesse fare, giovane o anziano che sia, dimostrerebbe solo una grande incultura politica che, come si sa, non ha preferenza di età.
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