Da venti anni l’Italia è affannata da una crescente difficoltà politica ed economica e da una divisione profonda nella società senza precedenti nella storia unitaria del paese. In questo colossale smarrimento emerge come causa prima la crisi del pensiero politico, divenuta inquietante. Pallidi spettri di un mondo sfarinato confondono il tramonto delle ideologie con la rinuncia alle culture politiche, ritenendola un segno distintivo della modernità.
La stragrande maggioranza dei leader, veri o presunti, ritiene infatti che la somma degli interessi che si intendono tutelare costituisce la nuova, vera identità delle forze politiche. E il programma è elevato a simbolo identitario. Purtroppo i leader spesso non sanno più quel che dicono. Hanno dimenticato che una ideologia è costituita da una visione delle cose e dei comportamenti che, se fosse smentita dalla realtà, sarebbe peggio per la realtà stessa che dovrebbe essere “corretta” con la forza dell’oppressione come ha dimostrato il novecento con i disastri del nazifascismo e del comunismo.
Ben altra cosa è una cultura di riferimento che, al contrario, è la visione precoce di come e in quale direzione si muovono le forze reali nelle società nazionali e nel mondo intero, avvertendo per tempo i rischi economici e sociali che si profilano all’orizzonte e immaginando anche le possibili correzioni virtuose dell’azione politica. Questo è possibile solo se il cammino è assistito da una cultura di valori e di obiettivi inerenti la centralità della singola persona e se alle correzioni si accompagna sempre la saggezza del dubbio piuttosto che l’orgoglio delle certezze.
Le certezze appartengono alle ideologie, non alle culture politiche. Le culture, al contrario, richiedono una continua offensiva di persuasione verso i corpi intermedi, le masse popolari e le élites che presiedono poteri e interessi personali o di gruppi, riconosciuti tutti come soggetti politici con i quali dialogare. In questa offensiva di persuasione per una nuova stagione di diritti e di doveri, una forza democratica che abbia come bussola la propria cultura di riferimento deve sempre essere pronta a modificare la direzione di marcia verificando, nel concreto delle realtà in movimento, la qualità e la praticabilità delle proprie convinzioni. Piaccia o no, questa è la democrazia con tutto il suo carico di fatica e di elaborazione mentre chi va nelle piazze superando i corpi intermedi prepara un’avventura autoritaria.
È ciò che accade da tempo in Italia. La crisi del pensiero politico invece di sollecitare una rivisitazione e un aggiornamento delle grandi culture politiche spinge i protagonisti di oggi a declamare, con enfasi, il trionfo delle liste civiche, da quelle locali a quelle nazionali, fino al punto che il presidente europeo della Trilateral, una delle più forti lobby internazionali, Mario Monti, fondò un partito chiamato, appunto, “Scelta civica”.
È la stessa cosa che vediamo nelle grandi crisi economiche internazionali degli ultimi decenni. La bassa crescita, la sua pessima qualità sul terreno ambientale e della salute, le crescenti diseguaglianze sociali, tutte figlie di un capitalismo finanziario selvaggio, invece di produrre gli anticorpi necessari per difendere la produzione di beni e servizi dall’avidità della finanza, inietta immense liquidità monetarie nei mercati senza preoccuparsi di regolamentarli anche con politiche fiscali coerenti. Insomma, si curano le emergenze economiche con la stessa medicina che le ha causate.
In politica avviene la stessa cosa. Alla crisi dei partiti si risponde con i movimenti destrutturati, il personalismo politico autoreferenziale e la rincorsa alla pancia del paese, rinunciando a guidare la società con una chiara visione d’insieme. Questo sarebbe il compito proprio di un partito che torni anche a pensare e ad ascoltare, per gestire al meglio il potere. Se lo facesse, però, secondo la cultura dominante questo tipo di partito disturberebbe il manovratore di turno e sarebbe considerato di ostacolo all’azione di un governo che, inevitabilmente, ha una visione più corta rispetto ai partiti, perché è affannato da una quotidianità aspra e severa.
Ecco dunque il cuore della crisi e dello smarrimento che, lentamente, fa scivolare il paese verso un declino politico ed economico che sembra inarrestabile. Il declino, come sempre accade, rischia di considerare una soluzione salvifica la nascita di un sistema politico autoritario vestito da terzo millennio, cioè senza balcone e senza militarismi ridicoli e pericolosi, ma altrettanto soffocante e inadeguato.
Nel mio viaggio in questi ultimi venti anni, durante i quali sono stato eletto con le preferenze prima nel parlamento europeo (2004) e poi di nuovo in quello nazionale (2006), ho visto erodere i pilastri fondanti della democrazia operosa che trasformò l’Italia in una delle 7 potenze industriali del mondo. Oggi appare sempre più evidente la rovinosa rotta intrapresa dall’Italia, ormai vicina a essere sul piano economico un paese di consumatori e di produttori per conto terzi.
Sul piano politico siamo vicini ad una pericolosa trasformazione della nostra democrazia politica. Matteo Renzi con grande abilità narrativa sta trasferendo quel prodotto di modello di partito personale derivato dal pensiero unico in un nuovo ordinamento costituzionale che con l’aiuto di una legge elettorale senza precedenti nell’Europa democratica, affida alla migliore minoranza la maggioranza assoluta del Parlamento consentendo inoltre ai leader di nominarsi la maggioranza dei parlamentari che così non verranno mai più scelti dai cittadini. E così la democrazia del leader diventa l’anticamera di un nuovo autoritarismo.
La mia generazione deve essere un testimone generoso verso il Paese e verso la politica. Quest’ultima ha come unica alternativa, nella guida di una società, la forza del denaro intrecciata spesso con la grande informazione. L’intreccio rischia di mettere definitivamente in soffitta le culture democratiche cresciute e affermate nel ventesimo secolo, grazie all’azione dell’Occidente e al sacrificio di milioni di figli che hanno immolato la propria vita non certo per costruire un più sofisticato autoritarismo e una irreversibile, devastante disuguaglianza sociale.
Ecco perché bisogna respingere questa perversa accoppiata riforma costituzionale-Italicum votando NO al prossimo referendum del 4 dicembre.
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