articolo pubblicato su Il Foglio Quotidiano il 3 marzo 2017
In un giorno lontano fui costretto ad annunciare a mia madre, cattolica fervente, la morte di mio fratello Mariano. Aveva appena 33 anni. Mia madre rivolgendo lo sguardo verso un quadro della Madonna di Pompei a cui era devotissima disse tra le lacrime “non ti capisco, ma te lo affido”. E dopo Mariano, nella giovane maturità, scomparvero, poi, Bruno e Francesco. Ricordo questi momenti strazianti per dire con quali sentimenti di profondo credente mi avvicino al tema del fine vita ed alla morte di Fabo (Fabiano Antoniani). Parafrasando Papa Bergoglio, chi siamo noi per poter giudicare (“non giudicate e non sarete giudicati” Luca 6,37). Nel contempo, nei panni antichi di legislatore, devo anche indicare un percorso possibile quando siamo dinanzi al “dolore innocente” non praticato dalla mano dell’uomo ma dalla volontà divina. Spesso dimentichiamo l’angosciosa domanda che sale dalla umanità dolente dinanzi al mistero del dolore innocente. Un perchè senza risposta alcuna, quel “non ti capisco ma te lo affido” della mia cara mamma. E dinanzi a quel mistero divino senza una possibile risposta umana cerchiamo di capire quale percorso un credente può fare, quali limiti di fede può imporsi e quanta carità si può permettere. Nella preghiera enunciata da Cristo, il Padre Nostro si dice “non ci indurre in tentazione e liberaci dal male”. Nel nostro atto di dolore prima della comunione c’è il proposito “di fuggire le occasioni prossime del peccato” come impegno verso il Cristo che abbiamo offeso. Ebbene Fabo, uomo giovane, entusiasta della vita e del sorriso, è stato improvvisamente imprigionato nel suo corpo immobile ed è stato piombato nella oscurità di una cecità profonda e irreversibile. Ma la sua massima pena era l’assoluta integrità della propria coscienza, la sua capacità di ragionare e la sua emozionabilità rimasta intatta. Quali potevano essere, allora, i pensieri di una mente così sveglia e completa resa prigioniera in un corpo immobile e privo di ogni luce? Una lenta, inesorabile induzione al peccato inteso come rivolta ad un Dio che sarebbe sempre più apparso come uno spettatore disinteressato al dolore innocente. Quella mente ha probabilmente cercato nei primi tempi la luce della speranza nel quotidiano girovagare del suo pensiero senza poter parlare, nè vedere, nè scrivere. E per chi crede, quella disperazione era la più tremenda induzione a quel peccato di rivolta per il quale, dopo aver perduto il proprio corpo, Fabo avrebbe potuto perdere anche la sua anima. Giacobbe sentiva la voce di Dio e la sua obbedienza fu premiata dalla volontà di Dio che fermò la sua mano prima che uccidesse il proprio amato figlio. Ed allora salvare dalla disperazione e dal peccato l’anima di Fabo era un’opera di carità dolente o era una trasgressione alla dottrina che giustamente difende la vita in ogni occasione? Fabo non era un malato terminale ma era condannato a respirare ed a pensare nell’oscurità e nella immobilità permanenti. Cosa poteva più salvare se non la propria anima? E come poteva salvarla se non liberandola dalla oscurità e dalla immobilità in cui era stata imprigionata? La paura, forse, del peccato e della perdizione non poteva spingerlo al gesto estremo sulla base della promessa del Cristo “Chi crede in me non morirà in eterno?” Il dolore di un malato terminale è transitorio come transitoria è la sua vita che lentamente si spegne. La sedazione profonda e la terapia del dolore sono rimedi efficaci perchè la evoluzione naturale della vita faccia sino in fondo il suo doloroso cammino. Nel caso di Fabo, invece, la fine pena era “mai”. In quel “mai fine pena” c’era il demone della disperazione e della rivolta a Dio ed allora liberare la sua anima non è stata forse un’opera d’immensa carità per salvare quella che per noi credenti è la cosa più importante, l’anima e la vita eterna? Anche nelle condizioni di Fabo la morte è una scelta tremenda, accettabile solo per salvare la propria anima dalla disperazione e dal peccato. Non abbiamo verità perchè non abbiamo risposte ma quando queste non ci sono l’unica risposta umana resta la carità, un’immensa, generosa carità alla quale anche il legislatore forse potrebbe ispirarsi.
Come può un cattolico pensare di salvare un’anima col rifiuto della vita e della Croce? Nel suo ragionamento c’è un grave equivoco, utile a sembrare progressisti: coscienza e anima sono concetti ben diversi e nemmeno simili